Progetto "Abitare e Sicurezza"

 

 

 

 

PROGETTO PREVENZIONE E SICUREZZA URBANA.

 

 

 

 

“ABITARE E SICUREZZA.”

 Riflessioni e proposte per costruire città, piazze, case,

 più accoglienti e sicure…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

INDICE

INTRODUZIONE.. 3

PARTE I

1.1 CITTA’ E SICUREZZA.. 6

PARTE II

2.1.     POLITICHE DI SICUREZZA, POLITICHE DI RIGENERAZIONE URBANA, POLITICHE ABITATIVE: LA PAROLA AGLI ESPERTI. 18

PARTE III

3.1 LA CITTA’ VISTA DAI BAMBINI 24

3.2 PROGETTO SCUOLE.APPROCCIARSI ALLA SICUREZZA......................................31

3.3 LE FASI E L’ATTIVITA’DIDATTICA.. 32

CONCLUSIONI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

INTRODUZIONE.

“Uno spazio è pubblico in quanto a uomini e donne è

consentito entravi senza che siano stati precedentemente

selezionati per l’ingresso. E’ nei luoghi pubblici che la vita

urbana raggiunge la sua più compiuta espressione, con le

sue caratteristiche gioie e pene, speranze e presentimenti”.

Gli scenari dell’insicurezza urbana diventano giorno dopo giorno elementi fondanti del nostro disagio sociale e personale. Nonostante i numerosi interventi legislativi e operativi volti a contrastare fenomeni di micro e macro criminalità. La sensazione diffusa è che la nostra città sia meno sicura di un tempo e che il fenomeno del degrado e della convivenza siano incontenibili. Il progetto parte dall’idea che la sicurezza nel nostro paese vada costruita collettivamente attraverso l’azione congiunta di istituzioni, soggetti locali e cittadini. Si è proposto dunque di promuovere e diffondere nel territorio comunale una cultura della sicurezza come politica integrata, offrendo occasioni di riflessione e strumenti di azione ai diversi attori che, a vario titolo e a vari livelli, hanno competenze e responsabilità di gestione del territorio e possono migliorare le condizioni di sicurezza.

Il progetto sviluppa molteplici azioni, alcune rivolte a soggetti istituzionali affinché progettino e gestiscano politiche locali coerenti con i bisogni del territorio e di chi vi abita, altre destinate a coinvolgere categorie di cittadini, beneficiarie delle politiche per la sicurezza.

Le finalità e gli obiettivi  del progetto saranno perseguiti attraverso:

  • 1. La sensibilizzazione degli amministratori locali per stimolarne la riflessione su politiche e interventi sui problemi cui hanno cercato di dare risposta e sul loro livello di efficacia. Nell’ambito di questa azione si deve prima effettuare un lavoro di analisi sulle iniziative, realizzate o in corso di realizzazione, degli enti locali; in seguito si deve accompagnare l’amministrazione locale ad ottimizzare il proprio operato nella progettazione e realizzazione di politiche di sicurezza.
  • 2. Ascoltare i bisogni, leggere le situazioni per promuovere una riflessione critica sulle risposte possibili ai problemi di insicurezza. Ciò è stato effettuato attraverso: (a) laboratori didattici con i bambini delle scuole elementari sul tema della sicurezza      (b) laboratorio per l’analisi dei messaggi e delle campagne di comunicazione pubblica e sociale (c) laboratorio per l’ideazione di una campagna di marketing e comunicazione sociale sul tema della sicurezza
  • 3. Confrontare i punti di vista attraverso tavoli di discussione tematici con esperti e attori locali, con l’obiettivo di approfondire alcuni degli ambiti principali legati alla realizzazione di politiche di sicurezza.
  • 4. Sostenere lo sviluppo di Patti Locali per la Sicurezza attraverso un percorso di animazione e coinvolgimento degli attori locali.

L’analisi e l’ipotesi di lavoro che emerge attraverso le diverse azioni del progetto, intende offrire all’amministrazione locale riflessioni tematiche e strumenti per lavorare sulla sicurezza integrata. Nell’ambito del progetto, inoltre, si dovrà realizzare un kit didattico sulla sicurezza urbana e distribuirlo nelle scuole.

Che esista una relazione tra condizioni di sicurezza delle persone e qualità urbana è cosa ovvia e risaputa. Sin dall’origine, le città hanno rappresentato al contempo luogo di sviluppo sociale, culturale, economico, spazio in cui preservare l’incolumità della comunità, ma anche crogiolo di contraddizioni, discriminazioni e conflitti sociali. Sebbene, quindi, il paese appaia come un sistema complesso, in cui sono molti gli elementi che concorrono a definire il contesto e come esso viene percepito, dal punto di vista delle politiche pubbliche, tuttavia, i paesi sono stati spesso oggetto di un approccio settoriale, in cui le policies urbanistiche, sociali, economiche, culturali, della sicurezza, raramente sono state parte di un tutto in grado di affrontare in modo integrato il tema dei paesi in termini di qualità della vita delle persone che la abitano. La connotazione delle politiche urbane o, più propriamente dello sviluppo urbanistico, non sempre ha saputo tenere conto delle profonde trasformazioni che i paesi conoscevano dal punto di vista sociale, culturale e economico. Come un organismo composto da corpi che sanno essere interdipendenti ma agiscono in modo autonomo, i paesi hanno stentato a coniugare il tema dello sviluppo urbano con quello della crescita sociale ed economica, la qualità della vita con la sicurezza, il governo della complessità con la condivisione e la partecipazione dei cittadini. Tutto questo, per citare un rapporto della Commissione europea della fine degli anni 90, pone di fronte ad un fatto:

 La domanda essenziale a cui rispondere è: perché la gente non è più felice di vivere tutta la vita nelle città o nei paesi? In molte parti d’Europa, la città e il paese non è più un luogo desiderabile dove far crescere i propri figli, dove passare il tempo libero o in generale dove vivere. Questa erosione del ruolo della città e dei paesi è forse la più grave minaccia al modello europeo di sviluppo e di società, e senz’altro una questione che richiede un ampio dibattito”.

E’ a partire da questo quadro che appare utile e ragionevole proporre una riflessione che affronti il tema di come l’ambiente costruito, la progettazione e il mantenimento dello spazio pubblico, la cura di case e quartieri può contribuire a costruire condizioni di maggiore sicurezza. A partire dalle scelte di governo locale, dalla sensibilità di urbanisti e architetti, dalla consapevolezza dei cittadini che concorrere alla migliore vivibilità di un quartiere impone, anche, a ognuno di fare qualcosa. Nella città contemporanea il tema della qualità urbana è certamente questione che chiama in causa strumenti e competenze diverse, ma anche visioni, programmi, processi decisionali, capacità di governo. Cose in grado di incidere sulle grandi scelte, così come sulle piccole azioni concrete per intervenire in situazioni di criticità. Perché se le città e i paesi hanno bisogno di essere pianificate nel loro sviluppo, altrettanto valore ha o dovrebbe avere  la consapevolezza che l’ambiente costruito, al pari delle persone che lo vivono, hanno necessità di cura, manutenzione, attenzione. Sapendo che non esistono né algoritmi matematici, né ricette da applicare indipendentemente dal contesto. Perché la percezione della qualità dello sviluppo urbano, così come il senso di insicurezza delle persone, non sono gli stessi e non sono nemmeno immutabili nel tempo. E’ questo, forse, il senso della sfida che le città hanno di fronte: progettare il proprio sviluppo e la propria rigenerazione, scommettendo su modelli d’intervento che si fondino sull’inclusione e la responsabilità comune. E, allora, in che modo le città, i suoi organi di governo, gli attori che vi operano possono contribuire al miglioramento della qualità della vita dei cittadini producendo al contempo nuovo sviluppo economico e sociale? Quanto una comunità è consapevole del valore dei “servizi di manutenzione alla qualità della vita” e quanto è disposta ad investire per migliorarli?

Trovare le risposte a queste domande, può voler dire avere la forza di innovare le pratiche e gli approcci, scommettere sulla possibilità di coinvolgere e convincere, investire sulle cose che ancora non ci sono. Magari provando ad assumere un altro punto di vista, quello dei bambini, per esempio che su come progettare, qualificare, usare gli spazi della città hanno dimostrato, sempre, di avere opinioni e proposte serie e ragionevoli che gli adulti farebbero bene a ascoltare.

 

 

 

 

 

 

 

PARTE PRIMA.

1.1 CITTA’E SICUREZZA.

 

Non esiste una ricetta fissa per avere uno spazio sicuro, uno spazio accogliente, animato, e senza rischi. Di certo entrano in gioco tanti fattori: lo spazio fisico, i servizi presenti, la comunità che lì abita o transita. Però, su ognuno di questi fattori si può provare ad agire per cercare di progettare un nuovo spazio che nasca sotto buoni auspici, oppure per migliorare uno spazio esistente.

All’interno di una politica pubblica per la sicurezza, quale ruolo può rivestire il tema della pianificazione e della progettazione urbanistica? Che tipo di interazione esiste tra un paese più vivibile e sicuro e il modo in cui sono stati pensati e organizzati i suoi quartieri, le piazze, i parchi, le strade?

Come può un’amministrazione proporre interventi e progettare nuovi spazi nel paese che ne migliorino la vivibilità e la sicurezza, arginando la dimensione della paura e contenendo

quei fenomeni che alimentano l’insicurezza urbana?

Che cosa significa costruire un paese sicuro, e prima ancora, immaginarlo? Come è fatto un paese sicuro?

Il paese contemporaneo appare spesso come un luogo pervaso dal senso di pericolo, dove si combatte una quotidiana battaglia per sentirsi più sicuri e dove è la paura a dare forma al paese, creando quartieri chiusi, zone sempre più sorvegliate, inventando dissuasori che allontanino “le persone pericolose” dagli spazi pubblici. Adottare questa visione acriticamente non lascia altra possibilità che mettere in campo strategie di protezione e controllo degli spazi e delle persone.

Difendere uno spazio è una strategia che difficilmente ha un termine ultimo: posso limitarne l’accesso, ma se le barriere vengono superate dovrò mettere barriere ancora più consistenti; posso sorvegliarlo, ma dovrò garantire che “l’occhio vigile” sia attivo e in grado di intervenire in ogni momento. Si rischia di innescare un’azione in crescita progressiva, esponenziale. Un’altra recinzione, una telecamera in più, una volante in più. Senza la certezza che in questi spazi protetti le persone possano davvero stare meglio.

E’ quindi necessario cercare anche altre strade per costruire un paese sicuro, cominciando a cambiare lo sguardo e a leggere diversamente i contesti urbani. Il paese è il luogo della complessità, il luogo dell’affrancamento dai vincoli, il luogo in cui vivere liberi a fianco di altri, simili o molto diversi. La contropartita è che in paese ci sono situazioni di confusione che sono connaturate a questa condizione di libertà. Cambiare i punti di vista significa riconoscere questa “confusione” e cercare modi per convivere con queste condizioni. Significa comprendere che non esiste un paese completamente sicuro; forse esistono aree completamente sicure, ma bisogna scegliere se è quello il modello cui si vuole tendere per costruire gli spazi del paese futuro. Scegliere questo punto di vista può permettere di liberarsi dalla logica esponenziale della difesa degli spazi e aprire il campo a soluzioni diverse, che lavorano sull’accogliere piuttosto che sul respingere, sull’animare piuttosto che sul controllare. E’ quindi importante progettare politiche che siano in grado di preservare la complessità della vita urbana e le molteplici opportunità che può offrire, lavorando anche in termini di rigenerazione e promozione dello spazio fisico del paese, delle case, dei quartieri, delle piazze.

Una politica per la sicurezza dello spazio urbano dovrebbe riuscire a tenere insieme e coniugare le tre modalità attraverso le quali è possibile lavorare per costruire la sicurezza dei cittadini: l’approccio legato ad azioni di controllo, attraverso l’operato delle forze dell’ordine, l’approccio che opera sul contesto sociale, al fine di ridurre condizioni di degrado e vulnerabilità che potrebbero essere causa di comportamenti devianti, l’approccio di tipo ambientale, che agisce sulla progettazione e l’organizzazione del paese e dei suoi spazi, facendo leva su quei fattori dell’ambiente che possono influenzare il problema della criminalità e dell’allarme sociale.

Se storicamente questi interventi hanno proceduto lungo assi paralleli, oggi si riconosce che solo attraverso un’integrazione delle politiche e degli ambiti d’intervento è possibile portare avanti un’azione efficace. Dunque accanto alle tradizionali politiche di controllo della criminalità, diventa fondamentale porre in atto politiche complementari che agiscano sull’organizzazione e sulla gestione del contesto urbano, sia nelle sue componenti sociali che in quelle più strettamente urbanistiche e territoriali.

Da dove nasce l’insicurezza?

Per riflettere sul legame tra urbanistica e sicurezza occorre primariamente soffermarsi sul fatto che ciò che rende insicuri i cittadini non è solo la criminalità vera e propria ma anche tutto ciò che rende poco vivibile un luogo. Il concetto di sicurezza va inteso sia in termini oggettivi, descritto dai dati e dalle statistiche sull’andamento degli atti criminosi, sia in termini soggettivi, legato cioè alla percezione soggettiva di rischio, di paura, di disagio che viene espressa, ad esempio, dagli abitanti di un paese nel muoversi sul proprio territorio.

Assi d’intervento per la sicurezza

Le azioni progettuali di tipo urbanistico ed architettonico, e anche quelle di tipo organizzativo, che agiscono sull’utilizzo degli spazi, hanno così un duplice obiettivo: il contrasto del pericolo oggettivo, e un lavoro sugli aspetti soggettivi della sicurezza, al fine di arginare quei fattori, che fanno aumentare la paura e l’allarme sociale.

Ma quali sono le condizioni che fanno percepire il luogo in cui si abita, si transita, si lavora, come poco sicuro e poco vivibile?

La possibilità reale di essere vittima di reati e atti violenti (furti, scippi, aggressioni, adescamenti); il degrado sociale, ossia la presenza di situazioni che rompono i codici condivisi di comportamento in tema di convivenza (persone che dormono per la strada, l’accattonaggio, il commercio abusivo, gli assembramenti di persone sconosciute in luoghi pubblici, la prostituzione, la mancanza di vitalità e di esercizi commerciali). Si tratta di fenomeni che, pur non andando a incidere sull’incolumità delle persone, generano un senso di pericolo, di inquietudine, di indignazione; il degrado ambientale, costituito dagli elementi che fanno percepire un territorio come non curato, non controllato, non gestito: sporcizia, edifici abbandonati, la trascuratezza nella gestione del verde pubblico, scritte sui muri, lampioni rotti, rumori molesti; la paura, intesa come sentimento soggettivo e pervasivo, spesso non proporzionale alla reale pericolosità, ma legato a fattori molteplici e non in relazione al contesto specifico (il ruolo dei media, le condizioni socio-anagrafiche, il ruolo sociale…).

Il senso di insicurezza è dovuto all’effetto cumulativo di questi fattori: l’impressione di vivere in un ambiente ai limiti della sopportabilità non dipende in modo esclusivo da un’invasività diretta degli atti criminosi, ma da un accumulo di disagio e di caos, di inciviltà e sgradevolezza, elementi che caratterizzano in misura sempre crescente l’ambiente urbano.

Ad esempio la presenza di persone che “violano l’ordine sociale” che, pur non commettendo crimini o reati, inquietano e impauriscono, suscita sentimenti di ingiustizia e impotenza. Oppure un edificio degradato o abbandonato, l’arredo urbano danneggiato o vandalizzato, possono innescare un processo degenerativo che coinvolge sia le cattive condizioni dello spazio che la sensazione di insicurezza di chi vi abita. Questi elementi spingono a perché un luogo ci fa paura?

Percepire l’area in questione come frequentata da soggetti pericolosi, inducono a ritenere che non vi sia un efficace controllo delle forze dell’ordine, e che la comunità locale non sia in grado di creare un ambiente ordinato e protetto. L’ottica ambientale qui presa in considerazione fa dunque riferimento a questo concetto allargato di sicurezza, espressione di un disagio composito, e non solo effetto del rischio reale.

Cittadini sicuri e insicuri

La descrizione che gli individui danno del proprio ambiente di vita dipende non solo dalle caratteristiche “oggettive” di un luogo ma anche dall’interazione tra quel dato soggetto e la

realtà. Ciò significa che non esiste un’unica realtà ma esistono tante rappresentazioni soggettive di quel dato ambiente. Si parla infatti di “senso di insicurezza” o di “rischio percepito” sottolineando così la relazione soggettiva che s’instaura tra l’individuo e il suo ambiente.

Per descrivere la sicurezza di un territorio sarebbe dunque limitante utilizzare solo i dati relativi ai crimini commessi in quella zona, così come altrettanto parziale sarebbe affidarsi

solo alla descrizione soggettiva che i cittadini ne fanno.

In altre parole, due persone che abitano nello stesso quartiere, pur condividendo lo stesso ambiente di vita, lo vivranno in modo differente, a seconda della propria cultura di riferimento, delle condizioni socio-anagrafiche, dei luoghi che frequentano, delle proprie attività. Ne avranno dunque una rappresentazione mediata da coordinate soggettive, che va a costruire una mappa cognitiva che aiuta a orientarsi nello spazio e a organizzare la propria conoscenza. Questa sorta di mappa, che consente alle persone di muoversi più o meno tranquillamente in certe zone e in certi orari, di sedersi su una panchina o di camminare a passo veloce, di acquistare una casa in un dato quartiere oppure no, è un mezzo di collegamento tra il mondo che ci circonda e la sensazione soggettiva che ne deriva. Si tratta sempre di mappe dinamiche, visto che sia le persone, con le loro sensazioni e percezioni, sia i luoghi, con le loro forme, prospettive, frequentazioni, sono sempre in movimento. Questo ci aiuta a comprendere che ciascun cittadino, sentendosi più o meno sicuro nei diversi contesti, cercherà di mettere in atto delle strategie, scelte non solo in base ad elementi oggettivi dei luoghi ma anche in base a caratteristiche soggettive, che lo facciano sentire più sicuro: modificare il proprio comportamento negli spazi pubblici; smettere di fare certe cose per paura di subire dei reati (ritenzione); mettere in atto comportamenti di autoreclusione; dotarsi di mezzi di difesa e protezione; minimizzare i fattori di paura e rimuovere gli eventi ansiogeni. Ad esempio sono per lo più le donne sopra i 50 anni ad avere paura ad uscire da sole la sera. Questo per talune si tradurrà in un comportamento evitante, che riduce al minimo le possibilità di uscire, oppure nell’assunzione di strategie di protezione, come farsi accompagnare, percorrere solo strade illuminate. Nel progettare politiche di sicurezza definire il target – o i target - di riferimento è importante. E’ importante riuscire a combinare in modo innovativo strumenti e target, come dimostra un progetto realizzato in Francia, in cui le telecamere invece che essere rivolte verso l’esterno sono state puntate verso l’interno, nelle case degli anziani, consentendo loro di essere in collegamento, attraverso un circuito chiuso, con un operatore e fra di loro. Questo ha fatto calare notevolmente la relazione c’è tra un soggetto e il suo territorio? tra mappe geografiche e mappe mentali?

Uno sguardo alla storia dell’approccio ambientale alla sicurezza: da Jane Jacobs alla normativa europea.

Le politiche di sicurezza urbana relative all’ambiente costruito che vengono messe in campo oggi possono contare su qualche decennio di studi e riflessioni sul tema. A partire dagli anni '60 negli Stati Uniti si sviluppa un filone di studi specifico che si occupa di indagare come l’organizzazione dello spazio fisico possa essere uno strumento di prevenzione e riduzione della criminalità e degli altri fattori che generano insicurezza. Le prime riflessioni vengono da un’antropologa americana, Jane Jacobs, che nel famoso libro “Vita e morte delle grandi città americane” del 1961, prendendo spunto da un’attenta osservazione del quartiere newyorkese dove abita, espone i due concetti chiave:

  • il principale elemento che garantisce la sicurezza è costituito dalla vitalità di un quartiere: quello che lei definisce “l’occhio sulla strada”, ossia la presenza di affacci degli edifici, di attività, di movimento; tutti elementi che garantiscono la costante presenza di persone;
  •  la sicurezza dipende dall’identificazione dei cittadini con il territorio: il cittadino infatti difende e rispetta uno spazio che sente proprio.   

La studiosa concentra le sue osservazioni sulle caratteristiche che rendono sicuro un territorio: da una parte fattori relativi al tessuto sociale, quali la forza dei rapporti di vicinato, le pratiche spontanee di controllo e la mescolanza di attività, dall’altra elementi relativi alla morfologia urbana, quali la delimitazione chiara tra spazio pubblico e privato e la progettazione di spazi che permettano la vista sulla strada. Partendo dalle osservazioni di Jane Jacobs, Oscar Newman affronta in modo più operativo e progettuale la questione della relazione tra spazio pubblico e sicurezza. I suoi studi, sollecitati dal Dipartimento di Stato di Washington, prendono avvio dalla constatazione degli alti tassi di criminalità nei quartieri di edilizia popolare e dall’intenzione di applicare una politica di sicurezza che agisca su spazio e criminalità. Newman elabora un programma di riduzione e prevenzione del crimine in un’ottica di spazio sicuro: “Defensible Space”. Lo spazio difendibile rappresenta un modello operativo per le vaste aree residenziali, basato su una progettazione che tenga presente il fatto che alcune dimensioni fisiche dello spazio, come i materiali utilizzati, le forme degli edifici, la luminosità, l’accessibilità possono contribuire alla creazione di ambienti sicuri, in cui la criminalità non trova spazio. Attorno a questo autore si sono coagulate critiche e polemiche soprattutto da parte di sociologi e criminologi relative al forte accento posto sugli aspetti fisici nell’influenzare il comportamento umano, imputando allo studioso accuse di determinismo ambientale, un determinismo lineare e che non tiene nella debita considerazione il valore delle relazioni sociali nella costruzione di una città sicura. É comunque possibile sottolineare il valore innovativo delle proposte e degli studi di Newman, effettuati con grande rigore scientifico e sperimentale. A partire dalle elaborazioni di Jane Jacobs e Oscar Newman, Catherine Coles e George Kelling, criminologi statunitensi, hanno elaborato le strategie che sono state alla base delle politiche per le sicurezza della città di New York sotto l’amministrazione di Rudolph Giuliani. In “Fixing Broken Windows [...]” si definisce un processo secondo il quale partendo dalla scarsa manutenzione, dal semplice disordine, la situazione di un’area può gradualmente peggiorare l’occhio sulla strada lo spazio difendibile arrivando ad uno stato di grave insicurezza. Con le parole degli autori, “se la finestra di una fabbrica o di un ufficio è rotta, i passanti guardandola arriveranno alla conclusione che nessuno se ne cura, che nessuno ne ha il controllo. Presto tutte le finestre saranno rotte e i passanti penseranno non solo che nessuno controlla l’edificio, ma anche che nessuno controlla la strada su cui si affaccia. Solo bande di giovani, criminali o sconsiderati possono avere qualcosa da fare in una strada non controllata, così sempre più cittadini abbandoneranno quella strada”. La strategia suggerita è quindi quella di agire subito, al primo segno di “disordine”, anche apparentemente irrilevante, per non innescare il processo degenerativo. L’interpretazione prevalente di questa teoria ha portato ad agire sulla repressione dei comportamenti devianti, anche non di tipo criminale, per evitare che s’instauri un clima di scarso controllo, quindi di sfiducia e di insicurezza. L’azione, tuttavia, può essere invece concentrata sulla riparazione immediata dei danni per bloccare i processi degenerativi. La novità del pensiero di Coles e Kelling sta nel sostenere che esiste un legame tra piccola e grande criminalità e che quindi agire sulla prima possa prevenire e contenere la seconda. Tale approccio ha ispirato le politiche sulla sicurezza di diverse amministrazioni, anche molto diverse tra loro, tra cui la più famosa è quella della zerotolerancedi New York mirata al controllo puntuale del disordine sociale. Oppure le politiche di rigenerazione urbana, che puntano alla riqualificazione, in primo luogo fisica di aree della città, affrontando il disordine ambientale per migliorare le condizioni di sicurezza dei luoghi. Nell’ultimo periodo l’approccio ambientale alla sicurezza urbana ha allargato la propria influenza sulla progettazione urbanistica e architettonica, entrando a farne parte anche se con pesi molto diversi a seconda dei paesi. Per quanto riguarda l’Europa, volendo fare un quadro estremamente sintetico e non esaustivo, è possibile dire che alcuni paesi hanno promosso un’applicazione tecnica dell’approccio ambientale, studiando delle certificazioni apposite che i progetti possono o devono richiedere per garantire la rispondenza a criteri che promuovono la sicurezza. Inoltre, a livello sovranazionale, è da tempo allo studio una normativa europea denominata “Prevenzione del crimine attraverso l’urbanistica e la progettazione edilizia”, attualmente in fase di approvazione. Per un approfondimento sui costi sociali di tale approccio, è un tentativo di offrire indicazioni progettuali relative alla sicurezza a chi si occupa di progettare le nostre città, le case, i quartieri, gli spazi pubblici, un’azione importante se non altro per il fatto di spingere a porre maggiore attenzione sulla

costruzione degli spazi il più possibile adeguati dal punto di vista della sicurezza e della vivibilità.

Gli strumenti per progettare.

Gli elementi da tenere in considerazione nel progettare, dal punto di vista urbanistico quanto architettonico, sono tanti, proviamo a prenderne in considerazione brevemente alcuni.

  • Trasporti, traffico, parcheggi.

 Il paese “motorizzato” ha molte facce e può essere osservato da vari punti di vista. Esistono numerosi progetti relativi alla sicurezza stradale ma difficilmente sono collegati ad una strategia di sicurezza urbana in senso ampio. Ciò che si potrebbe fare è trovare dei punti di contatto ed incentivare azioni che includano entrambi gli aspetti. Ad esempio il momento in cui si progettano trasformazioni della viabilità è un’opportunità per raggiungere obiettivi che riguardano sia la sicurezza stradale che quella “sociale” legata alla viabilità. In generale è necessario prevedere azioni integrate, agendo, da un lato, sugli aspetti ambientali e fisici; dall’altro, sugli aspetti sociali, operando sul versante delle relazioni tra le persone per arginare quei fenomeni di isolamento o tensione che contribuiscono a creare la percezione di insicurezza o ad alimentare episodi di illegalità.

  • Arredo urbano e illuminazione

Il modo in cui uno spazio pubblico si presenta, la sua forma, i materiali dominanti, come è illuminato, sono decisivi per determinarne la frequentazione, in termini di quantità e tipologia delle persone che lo utilizzano. Elementi quali l’arredo, le pavimentazioni, l’illuminazione, diventano strumenti essenziali volti a contribuire alla sicurezza dell’area e possono essere utilizzati sia come elementi attrattori sia come elementi dissuasori. Una discreta diffusione ha avuto la progettazione di spazi “disagevoli”, pensati per allontanare categorie di persone “non raccomandabili”.

  • Progettare il paese per prevenire il crimine

Molti di questi sistemi finiscono per scoraggiare non solo i cosiddetti indesiderati ma qualsiasi frequentatore. È forse quindi consigliabile partire dalle azioni in positivo, di “attrazione” del maggior numero e della maggior varietà di persone, contando sull’effetto di sicurezza del luogo garantito dall’animazione. Questo si può fare in molti modi, a volte semplicemente un cambio di pavimentazione trasforma radicalmente un luogo. La sensazione di sicurezza e di protezione che si avverte in un ambiente è fortemente influenzata dal dominio visivo dello spazio circostante e dalla generale familiarità con il sito; il primo fattore dipende direttamente dall’illuminazione ma anche il secondo ne può essere influenzato. È dunque fondamentale offrire la possibilità di vedere ed anche di riconoscere un luogo.

L’illuminazione può determinare la percezione di uno spazio urbano come sicuro non soltanto attraverso l’azione fisica, consentendo di vedere, ma anche attraverso un’azione indiretta, tramite la creazione di un’immagine percepita come positiva del luogo. Per la piena agibilità delle aree è richiesto il pronto discernimento dei possibili ostacoli fissi, in movimento, sempre presenti oppure di casuale intralcio sui percorsi. Asperità, disuniformità, ostacoli sono dati da: dislivelli del piano di calpestio o del terreno, gradini, imperfezioni del manto di copertura dei percorsi, cordoli o muretti, oggetti abbandonati, rifiuti. La sicurezza, reale e percepita, del pedone è favorita dalla possibilità di discernere e di riconoscere le altre persone ad una distanza tale da permettere un comportamento efficace, che sia di fuga o di difesa attiva. Un sistema di illuminazione di alta qualità, oppure realizzato per valorizzare esteticamente il contesto, può modificare sensibilmente l’immagine e l’atmosfera di un territorio.

  • Spazio pubblico e uso sociale

Quando si parla di spazio pubblico, progettazione urbanistica e riqualificazione, molto spesso si fa riferimento esclusivo alle trasformazioni fisiche, e si pensa al paese fisico, quello fatto di edifici, di strade, marciapiedi e panchine. Così l’ambito dei progetti per la sicurezza spesso è messo in relazione ad opere edilizie, di difesa, di protezione, dimenticando che il nucleo forte della sensazione di sicurezza è connesso al valore sociale del paese. “La sicurezza è una particolare qualità della relazione sociale, legata in modo indissolubile alla percezione di organico inserimento nella vita relazionale, di una corrispondenza piena tra dimensione individuale e dimensione collettiva.” Occuparsi dello spazio pubblico del paese per renderlo più sicuro significa dunque coordinare interventi di riqualificazione fisica con interventi di ricostruzione della rete delle relazioni sociali, in modo da innescare processi di coesione sociale e modalità di uso “positivo” del territorio. Forse addirittura è possibile invertire la sequenza progettuale e pensare che politiche di riqualificazione di spazi urbani diventino non tanto interventi con finalità autonome ma mezzi attraverso i quali produrre coesione sociale e senso di appartenenza, condizioni che hanno ripercussioni forti sul tema della sicurezza di un territorio. Quanto più un’area urbana si offre a chi l’attraversa, o la abita, come un’area vitale, ricca di legami sociali, e di reti di cooperazione e controllo informale, tanto più quell’area verrà percepita come sicura, cioè come un’area nella quale sentirsi liberi di muoversi e risiedere, e verso la quale nutrire fiducia e avere cura. Uno dei fattori considerati fondamentali nello sviluppo di una comunità è quello di capitale sociale, concetto multidimensionale e dinamico che fa riferimento alla struttura sociale di una collettività, e alla costruzione di reti sociali fiduciarie che consentono la valorizzazione degli elementi del contesto e del capitale umano. E’ inoltre rintracciabile un legame tra il senso civico degli abitanti di un territorio e la loro sensazione di sicurezza: ricerche sostengono che coloro che, di fronte all’eventualità di essere vittime di un reato, sarebbero disposti a denunciare il fatto - dimostrando così un maggiore senso di fiducia verso le istituzioni e maggior senso di responsabilità civica - si rivelano anche maggiormente sicuri.

Occorre dunque promuovere azioni che accrescano il senso di appartenenza, e quindi di responsabilità, degli abitanti verso i luoghi che abitano, in modo che nel vivere la quotidianità la comunità costruisca un proprio ruolo sociale attivo. Il senso di appartenenza consiste nella percezione che l’individuo ha delle relazioni vissute all’interno di un dato contesto, e ci ricorda che uno spazio fisico non assume i caratteri di un territorio se in esso non si sostanzia un insieme di rapporti sociali, di abitudini, di riti che determinano con quello spazio una relazione di tipo economico, sociale, affettivo. Questo permette alle persone di sentirsi parte e di partecipare, di prendersi cura e di sentirsi riconosciuto. Un territorio dove, accanto alle trasformazioni fisiche, viene promossa la costruzione di reti sociali attive e di percorsi di coesione, comunica a chi vi abita e a chi vi transita una maggiore percezione di sicurezza e determina un circolo virtuoso per cui la comunità attiva influenza positivamente i singoli, e i singoli a loro volta influenzano la comunità, in un processo interno di sviluppo. A fronte dunque di contraddizioni sempre più evidenti nelle diverse realtà territoriali e di una sempre maggiore complessità della vita sociale, quali politiche e quali azioni possono essere messe in atto per promuovere lo sviluppo di quei processi di integrazione, partecipazione e appartenenza che devono accompagnare le trasformazione fisica affinché accresca la qualità della vita e produca per tutti migliori condizioni di sicurezza?

Progettazione di spazi pubblici destinati all’uso sociale.

Spesso i problemi nascono dall’assenza o dall’inadeguatezza degli spazi a disposizione della comunità: piazze, parchi, cortili che siano atti ad accogliere azioni collettive e pratiche individuali. La progettazione e l’organizzazione di questi spazi deve tener conto dei vari usi che i diversi gruppi, giovani, famiglie, anziani, possono farne, delle necessità di ciascuno, anche partendo da una selezione dei tempi di fruizione. L’obiettivo deve ssere quello di progettare le diverse funzione di uno spazio pubblico, organizzato in modo da essere luogo capace di stimolare l’immaginario e l’interattività dei suoi fruitori e contemporaneamente di essere spazio di mediazione per i conflitti legati al suo utilizzo che possano sorgervi. da spazio a territorio.

Progetti partecipati.

Sempre più frequente è l’utilizzo del concetto di partecipazione, che, pur declinandosi secondo approcci e modalità operative diverse, si fonda sul diritto delle persone a prendere parte alle decisioni che, direttamente o indirettamente, le riguardano. Da una parte le modalità partecipative hanno quale obiettivo quello di sviluppare modalità nuove di relazione tra cittadini e pubblica amministrazione, ma nel contempo diventano occasione per sperimentare legami di diverso tipo, attraverso la condivisione di interessi, bisogni, valori e storie di vita, ricercando un senso di appartenenza alla collettività e coltivando rapporti significativi in contesti che permettano di sperimentare il vissuto del senso di comunità. Processi partecipati garantiscono inoltre nelle diverse fasi della pianificazione, da quella di analisi a quella delle scelte strategiche, la possibilità di raccogliere elementi di conoscenza e esigenze reali del contesto a partire dalla percezione dei diversi gruppi di attori locali. Informazioni, esigenze, visioni, conoscenze implicite ed esplicite possono così diventare patrimonio comune finalizzato alla progettazione. Esistono molte esperienze che mirano a coinvolgere i cittadini su temi quali la pianificazione ambientale e architettonica. Ad esempio risultati interessanti sono stati raggiunti in percorsi di progettazione degli spazi pubblici, come un parco disegnato a partire dalle idee dei bambini del quartiere, o nuove illuminazioni progettate in collaborazione con i residenti, o una piazza il cui rifacimento è progettato attraverso il coinvolgimento degli abitanti. I percorsi di partecipazione consentono inoltre di potenziare il senso di responsabilità di ciascuno rispetto agli spazi che ha contribuito a progettare: una sorta di “effetto manutenzione” per cui la comunità ha cura di quanto ha realizzato e fa in modo che anche gli altri fruitori siano corretti nell’utilizzo di quegli spazi.

Animazione sociale.

Rientrano in questa categoria tutte le azioni che mirano a individuare e promuovere dinamiche nuove di sviluppo e di appartenenza a livello locale: dagli eventi culturali e sportivi, ai festival, alle giornate tematiche. Si tratta di azioni che si basano su un’idea di sviluppo di tipo territoriale, legate nello specifico alle caratteristiche dei diversi contesti locali, che, nelle diverse fasi, esprimono bisogni diversi. La finalità delle azioni di animazione è quella di creare la fiducia necessaria affinché i vari gruppi di interesse presenti sul territorio, comunità locali, istituzioni pubbliche e private, collaborino ad un processo di sviluppo del territorio, sia esso di tipo ambientale, sociale, economico. Una strategia d’intervento sulle città: l’approccio integrato nelle politiche di rigenerazione urbana. Questa consapevolezza, presente nel dibattito europeo almeno dalla pubblicazione del Libro Verde della Commissione europea del 199013, ha guidato la definizione di una strategia d’intervento mette al centro il tema urbano come questione decisiva nell’ambito delle politiche di sviluppo e coesione. Da allora, infatti, si è messo in moto un processo che dal punto di vista istituzionale si è concretizzato con introduzione nel Trattato dell’Unione Unione del Comitato delle Regioni e da quello politico ha visto animarsi la stagione delle “reti europee di città” come Eurocitiese Quartiers en Crise.

Ma, soprattutto, è in quegli anni che prende vita un dibattito politico, culturale, istituzionale che porterà alla definizione di politiche e programmi europei per la rigenerazione urbana che influenzeranno, sia dal punto di vista del metodo e dell’approccio, sia quello delle ricadute finanziarie, le politiche urbane degli stati membri e delle città europee.

Il programma URBAN è certamente il programma che più ha impresso un’accelerazione al dibattito europeo sulla rigenerazione di periferie e quartieri degradati. Persino al di là delle città che ne hanno beneficiato direttamente negli anni delle due programmazioni, il “Metodo URBAN” ha rappresentato il riferimento per le politiche di rigenerazione urbana, influenzando, come vedremo in seguito, molti degli strumenti operativi messi a disposizione dallo Stato e dalle Regioni alle città italiane.

Le principali caratteristiche del programma URBAN sono state: un approccio integrato alle problematiche che in altre sedi vengono affrontate solitamente in modo settoriale o giustapposto: rafforzamento della competitività; risposta ai problemi dell’emarginazione sociale e della sicurezza; qualificazione ambientale e materiale; i programmi sono gestiti a livello locale, vicino alle persone e ai loro problemi. Attraverso un approccio cosiddetto bottom up, le aree urbane vengono aiutate ad aiutarsi; forte coinvolgimento delle comunità locali, chiamate a partecipare all’ideazione e alla realizzazione degli interventi; un processo di apprendimento endogeno, con strumenti a vasto raggio per l’analisi e lo scambio.

I programmi integrati di sviluppo locale

Per tentare di spiegare quanto importanti siano, per intervenire in ambito territoriale, gli approcci e gli strumenti operativi (all’interno di URBAN II il programma URBACT mira a individuare in modo sistematico le buone pratiche e a favorire lo scambio di esperienze all’interno di un gruppo di circa 200 città dell’Unione europea. Sulla base dell’art. 10 del FESR sono stati finanziati 59 progetti per un totale di contributi europei di 164 milioni di euro. I progetti italiani finanziati furono complessivamente 6: Brindisi, Genova, Milano, Napoli, Torino, Venezia), nelle politiche di rigenerazione urbana, siamo partiti dal programma URBAN e da quanto esso abbia rappresentato in termini di ricadute concrete. Tuttavia, per cogliere al meglio il portato innovativo di queste politiche, anche dal punto di

vista dei modelli organizzativi d’intervento, può essere utile inquadrarle nel più generale concetto di politiche per lo sviluppo locale.

Lo sviluppo locale è un tema centrale del dibattito sui possibili modelli di sviluppo delle società. Il termine sviluppo indica una crescita ovvero una evoluzione che sia in grado di aggiungere e soprattutto di non sottrarre risorse e valori a una realtà. Implicitamente quest’ultima affermazione fa riferimento, nel suo significato di sviluppo, a un altro grande tema: la Sostenibilità. Si può affermare che se ci sarà uno sviluppo questo non potrà che essere sostenibile, dal punto di vista economico, sociale, ambientale. La sostenibilità, quindi, deve entrare nella genetica del processo di sviluppo. Bisogna pensare al patrimonio a cui le giovani generazioni potranno attingere per la propria crescita.

Lo sviluppo è un processo e quando si parla di processi, quindi di eventi dinamici, una artificiale perimetrazione è impossibile e forse poco utile a capire il succedersi dei fatti. Ma questi processi hanno, in ogni caso, una dimensione spaziale, una localizzazione, cioè possono riferirsi ad un luogo. Pertanto si definirà locale un luogo “pertinente” ad un processo di sviluppo. Ma il locale dello sviluppo non deve essere considerato un semplice supporto passivo di funzioni, ma uno spazio che diventa territorio attraverso l’azione collettiva di soggetti che, valorizzando le componenti materiali e immateriali del territorio, costruiscono un progetto per il futuro. I livelli a cui si può fare riferimento per sostenere le politiche di sviluppo locale sono quello nazionale, comunitario o mondiale. Molto spesso non si tratta di strategie, ma di politiche puntuali e mirate. In questo scenario si collocano i “Programmi Complessi”, strumenti di pianificazione territoriale che possono essere raggruppati in due grandi famiglie: i programmi di Rigenerazione urbana, e gli strumenti della Programmazione Negoziata. Appartengono alla prima tipologia programmi che possono essere di matrice comunitaria, come i già citati URBAN e PPU, oppure nazionale, come PRiU (Programmi di Riqualificazione Urbana), PII o PRiN (Programmi Integrati d’Intervento), PRUSST (Programmi di Recupero Urbano e Sviluppo Sostenibile del Territorio), i Contratti di Quartiere I e II e, infine, regionale come i PRU (Programmi di Recupero Urbano). All’interno della seconda famiglia si collocano: i Patti Territoriali, le Intese Territoriali di Programma, gli Accordi di Programma Quadro, i Contratti di Programma e gli Accordi d’Area.

Sono tutti strumenti definiti da oltre un decennio – e alcuni dei quali ormai conclusi - come risposta alle problematiche di rigenerazione urbana e sviluppo locale. Seppur con finalità molto diverse, hanno un carattere comune molto forte: l’integrazione. Nell’ottica della complessità a cui si è fatto riferimento nell’affrontare lo sviluppo locale, l’integrazione può essere l’unico approccio possibile.

Molto spesso, nella pratica, l’integrazione è declinata come semplice accostamento di funzioni diverse, perdendo l’aspetto fortemente relazionale che è la potenzialità maggiore dell’approccio integrato. E’ proprio per evitare di disperdere degli effetti di processi negoziati e partecipati tra attori locali che sempre più le comunità locali, sull’esperienza di analoghe esperienze europee, hanno promosso modelli specifici d’intervento in ambito urbano, producendo risultati significativi anche dal punto di vista dei processi amministrativi interni agli enti. Comitati, Agenzie di sviluppo locale, servizi di accompagnamento alla gestione degli interventi territoriali sono ormai entrati nel glossario della rigenerazione urbana e delle politiche territoriali come strumenti spesso insostituibili per produrre effetti duraturi nel tempo.

Le politiche per la rigenerazione urbana

Dopo aver tratteggiato brevemente il quadro generale degli strumenti e delle politiche a sostegno della rigenerazione urbana e dello sviluppo locale, è bene soffermarsi su quanto prodotto in questi anni dall’ente “Comune”, istituzione che si è posta certamente all’avanguardia nell’attuazione di politiche ad approccio integrato.

L’ente “Comune” sin dall’origine dovrebbe aver avviato una politica di riqualificazione dei quartieri popolari degradati, definendo strumenti operativi che si fondano sul “Metodo URBAN” e programmando in modo integrato i fondi Gescal e i Fondi Strutturali dell’Unione Europea. Il riferimento agli indirizzi comunitari ha favorito un approccio più completo alla riqualificazione delle periferie. Mentre, infatti, i decreti nazionali miravano più alla riqualificazione edilizia ed urbanistica dei quartieri popolari, il metodo URBAN suggeriva fin da subito di tenere conto dei problemi sociali ed ambientali del quartiere.

Programmi di Recupero Urbano (PRU)

I Programmi di Recupero Urbano, attuati a partire dalla metà degli anni novanta e in via di completamento, sono stati un insieme sistematico di opere finalizzate al miglioramento dei servizi e degli impianti a rete dei quartieri degradati di proprietà pubblica. Gestiti dalle Regioni e finanziati con i fondi Gescal, si proponevano di sostenere l’azione dei Comuni per opere al servizio prevalente del patrimonio residenziale pubblico e della manutenzione delle case popolari. Per finanziare le opere pubbliche i Comuni dovevano garantire la partecipazione in co-finanziamento di soggetti privati. Per incentivare l’intervento dei privati i Comuni potevano approvare varianti urbanistiche con procedure più veloci di quelle ordinarie, purché fosse garantito che il maggior valore attribuito all’area dalla variante fosse compensato dalla costruzione da parte del soggetto privato di un’opera pubblica di valore superiore. Negli anni 1996-1999 molti Comuni hanno proposto interventi nell’ambito del Programmi di Recupero Urbano.

Alcuni di questi sono stati selezionati come più rispondenti al “metodo URBAN” e  sono stati denominati “programmi pilota”.

Tra gli interventi volti al recupero sociale sono stati finanziati: impianti sportivi, edifici culturali, centri sociali e assistenziali, scuole, aree verdi attrezzate e parchi urbani.

Quelli rivolti al recupero ambientale sono stati: piazze, strade, fogne, sistemazioni ambientali, parcheggi e piste ciclabili e pedonali.

I Contratti di Quartiere

I Contratti di Quartiere sono programmi sperimentali di recupero urbano finanziati dal Ministero dei Lavori Pubblici (oggi Ministero delle Infrastrutture). I programmi prevedono interventi di manutenzione straordinaria, sul patrimonio di Edilizia residenziale pubblica, attraverso interventi ad approccio integrato che sappiano sostenere la trasformazione e la qualificazione del territorio anche dal punto di vista sociale, ambientale, culturale ed economico.

La sfida di nuova strategia per lo sviluppo urbano

Come abbiamo visto, sebbene sommariamente, le politiche di riqualificazione urbana hanno fortemente beneficiato degli strumenti messi a disposizione da livelli europei, nazionali, regionali. Si è trattato di programmi che hanno dato forte impulso alle politiche locali, ma soprattutto al dibattito che le ha accompagnate. Se oggi è naturale, quasi scontato, parlare di rigenerazione urbana nella consapevolezza che le città hanno bisogno di essere manutenute, se le politiche urbane sono sempre meno, nel dibattito pubblico, sinonimo di politiche urbanistiche e contemplano tutti gli aspetti dello sviluppo urbano, molto lo si deve a quanto fatto in questi anni a livello europeo e, a cascata, a livello nazionale e locale.

Oggi, giunti al termine programmi come URBAN, la sfida è quella rappresentata dalla nuova programmazione del Fondi Strutturali dell’Unione Europea per gli anni 2014-2020, nel quale è contemplata una specificità urbana.

Tuttavia, se un limite esiste in queste politiche è quello di essere, per molti versi, legate a risorse e interventi di carattere straordinario. In fondo, è come se lanciassero una sfida implicita alle società locali: il sostegno all’innovazione e alla sperimentazione di pratiche operative porta con sé la necessità di contaminare le politiche ordinarie. Quelle dello spazio pubblico e dei trasporti, della sicurezza e dell’integrazione, della casa, dello sviluppo sociale e economico, dell’istruzione e della cultura. In fondo, queste politiche propongono un metodo di lavoro, un modo per leggere il territorio, i suoi problemi, individuando al contempo le risorse che possono concorre alla soluzione.

È responsabilità delle società locali e di chi ha ruoli di governo farne buon uso e un miglior utilizzo del patrimonio stesso.

 

PARTE II.

2.1 POLITICHE DI SICUREZZA, POLITICHE DI RIGENERAZIONE URBANA, POLITICHE ABITATIVE: LA PAROLA AGLI ESPERTI.

All’interno di un progetto operativo, dovrà essere realizzato un Tavolo di discussione sul tema ambiente costruito e sicurezza, che rappresenterà un momento di sintesi del lavoro svolto. Si dovranno invitare a un momento di confronto e discussione guidata persone che, da punti di vista e con approcci diversi (per motivi professionali, di studio o nello svolgimento della loro attività politico – amministrativa), hanno avuto modo di riflettere o di lavorare sul tema, alla luce anche delle nuove indicazioni introdotte dalle nuove normative in attuazione delle politiche regionali in materia di sicurezza integrata. Nel corso della discussione dovranno trovare conferma l’ipotesi che le politiche che riguardano l’ambiente costruito e le politiche di sicurezza stiano in relazione in molti modi: si sovrappongono, si intrecciano, possono anche arrivare a coincidere; tutto dipende da quale punto di vista si adotta nell’affrontare il tema sicurezza. Lavorare sulle connessioni tra ambiente costruito e politiche di sicurezza è spesso complicato: le difficoltà nascono dal confronto tra visioni a volte difficilmente conciliabili, dalla complessità dell’integrare politiche e sistemi di azioni, dal dialogare con una domanda di sicurezza che chiede tempi di risposta più rapidi di quelli necessari a raggiungere risultati effettivi.

Quindi si dovrà porre agli esperti di discutere intorno a questi nodi critici e queste potenzialità, con l’obiettivo concreto di “tirare le fila” delle esperienze sin qui maturate e di offrire spunti di riflessione e suggerimenti alle amministrazioni pubbliche che intendono lavorare sulla sicurezza dei territori e delle comunità anche attraverso politiche sull’ambiente costruito.

In particolare il Tavolo dovrà essere sollecitato a discutere su:

A il coordinamento tra gli interventi in materia di sicurezza e di riqualificazione urbana e le politiche abitative, in particolare di competenza regionale

B la diversità di contesti e di interventi: un confronto tra le zone di edilizia pubblica e di edilizia privata

C i “motori del degrado” e i “motori della percezione del degrado”

D il ruolo dei cittadini nella progettazione delle politiche di sicurezza: attivi o passivi? Alleati o controparte?

Risposte immediate e veloci per accontentare la domanda.

Quindi non c’è neanche, spesso, il tempo - e questa forse è la principale debolezza delle politiche di sicurezza - di affrontare problemi che sono anche materiali, e non solo immateriali, e che hanno una rilevanza diretta sulle condizioni di sicurezza di un territorio ma che hanno bisogno di tempi più lunghi per essere messi in atto. Ad esempio la conformazione fisica di una piazza, lo stato di conservazione degli edifici, l’arredo urbano, ecc. sono dati materiali che possono avere un’influenza diretta sulla sicurezza di un luogo, percepita e oggettiva. Spesso però sia il dato materiale che quello immateriale vengono travisati, perché la risposta rimane sul piano meramente simbolico.

A questo punto però sembrerebbe possibile individuare, nel rapporto tra l’ambito securitario e quello dell’abitare, della riqualificazione urbana, una possibilità per le politiche di sicurezza.

Le politiche di sicurezza dovrebbero entrare all’interno dei processi e agganciarsi ad interventi che spostino la questione dal livello simbolico e la aggancino ad un intervento di più ampio respiro e più strategico.

La possibilità di realizzare questo “aggancio” si lega spesso al punto di vista di chi progetta l’intervento. Punti di vista diversi fanno riferimento a visioni diverse del concetto di sicurezza. Ma che cos’è a questo punto la sicurezza? Sicurezza è “una parola che abbiamo molto forzato, è diventata talmente larga che non sappiamo più dove finisce”, Andrea Bocco. Sicurezza in fondo è un po’ “un concetto “molla”, che si estende o si restringe a seconda dei contesti o di chi lo interpreta”, Roberto Arnaudo.

Se chi parla si occupa di rigenerazione urbana tende ad identificare la sicurezza con politiche di riqualificazione del territorio, vi fa afferire anche aspetti molto lontani dal tema originario. Invece in altre situazioni la “molla” torna ad essere un concetto meno esteso e ben delimitato, ad esempio nel momento in cui i Comuni scelgono di farsi rappresentare nel dibattito sulla sicurezza unicamente dall’assessore alla Polizia Municipale.

Un altro tema caldo da affrontare è quello dei graffiti. I muri  dipinti dai writers sono, o vengono considerati, un elemento di un certo peso tra i motori della domanda di sicurezza da parte dei cittadini e di conseguenza le amministrazioni sono alla continua ricerca di risposte efficaci. Le soluzioni messe in atto coprono un ampio range, da quelle di stampo più repressivo a quelle che partono dal riconoscere il protagonismo giovanile. Diverse città hanno costruito progetti che seguono il secondo approccio. Il progetto Murarte2, messo in campo a partire dal ’99, è stato pensato per rispondere all’esigenza di affrontare due diverse tematiche urbane: da una parte, l’esigenza di agire nel riconoscere alcune realtà artistico-giovanili spesso sconosciute e clandestine ma che nascondono una forte potenzialità di espressione e creatività; dall’altra, la necessità di attivare nuove iniziative a basso costo per combattere il degrado fisico di alcune parti della città migliorandone la percezione. Murarte implica una negoziazione con i writerse un patto tra i ragazzi e la città, attraverso il quale i ragazzi ricevono la possibilità di realizzare murales. Nelle discussioni recenti sui graffiti capita invece che spesso le città avanzino proposte nel quadro dell’approccio repressivo; si è sentito frequentemente proporre l’introduzione del reato penale di vendita delle bombolette spray ai minori di 18 anni. E questo anche da parte di città che stanno sperimentando progetti del tipo di Murarte. È necessario attivare un processo che tenga conto di diversi punti di vista, pena l’inefficacia dell’intervento. Può capitare che un approccio unilaterale porti con sé degli effetti moltiplicatori che rischiano di allontanare la soluzione invece di avvicinarla: la penalizzazione della vendita delle bombolette spray ai minori, ad esempio, implica l’introduzione della tracciabilità della bomboletta per risalire al rivenditore, implica il possesso di un “patentino”…tutti elementi che e per writerse rendono sempre più difficile stabilire il confine entro il quale ci si deve fermare e convalidano una logica secondo la quale si dovrebbe prendere in considerazione la penalizzazione della vendita “dei pennarelli a punta grossa, e a questo punto ogni bambino di 9 anni è un potenziale vandalo” e implica che “per ogni scritta sul muro ci sarà un vigile che multa e ci sarà un poliziotto che arresta”, Ilda Curti.

Volendo infine prendere in considerazione i costi che i diversi tipi di approccio comportano, senza voler realizzare una comparazione esaustiva, è comunque interessante considerare che Milano spende 12 milioni all’anno di pulizia dai graffiti. Tenere una prospettiva più stretta sul tema sicurezza fa sì che le città non prendano in considerazione di chiedere un supporto per intervenire sull’immateriale, sulle politiche sociali o culturali, ma solo sul prodursi del reato. I cittadini esprimono un bisogno di sicurezza, spesso territorialmente definito, cui gli enti locali provano a dare risposta attraverso politiche ed interventi più o meni efficaci. Si può provare ad immaginare un ruolo più attivo della cittadinanza nella progettazione di politiche di sicurezza? E’ possibile costruire un’ ”alleanza” strategica con i cittadini? È necessario chiedersi a quale tipo di visione di città sicura fa riferimento la domanda di sicurezza che esprimono i cittadini. La risposta pubblica a questa domanda dovrebbe da un lato agire per cercare soluzioni alla domanda di sicurezza e promuovere il cambiamento sul medio e lungo periodo, ma dall’altro per incentivare l’uso di codici di lettura che consentano di interpretare diversamente ciò che sta succedendo. Diversamente il dialogo con i cittadini sul tema sicurezza diventa un gioco al rimbalzo infinito e progressivo. E pur mettendo in campo risposte che si dimostrano efficaci “il contrasto è continuo; quando andiamo a parlare con gli abitanti, a parlare coi cittadini, ti dicono: lo Stato non c’è, le istituzioni ci hanno abbandonato, noi siamo da soli, le forze dell’ordine non si vedono; e noi gli snoccioliamo la lista degli investimenti. Che é vera, reale: abbiamo fatto.. abbiamo fatto.. ed è tutto vero, dall’altro c’è l’assoluta non... c’è il riconoscimento: sì, avete fatto, è vero, però... però sotto casa mia... però ho sentito dire... però... c’è quel però. Quel “però” che è la dannazione, che non può essere semplificata, quel “però” lì c’è e ci sarà sempre”. La politica tenta molto spesso di semplificare quel “però”, promettendo soluzioni in una “logica del più uno”: una telecamera in più, una cancellata in più, un poliziotto in più... il “più uno” diventa quasi un modello matematico, esponenziale, c’è sempre un “più uno” possibile. Il coraggio della politica dovrebbe essere, e non sempre c’è, quello di cominciare a dire che non esistono società completamente sicure; che l’assenza di rischio non esiste nei consorzi delle comunità umane, mai; che la città storica ha costruito le mura intorno a sé perché quando si usciva dalle mura o c’era il brigante o c’era l’orso…

Perpetrando nella logica del “più uno” la politica fa del male, non soltanto a se stessa, ma anche ai cittadini che rappresenta. Sembra diventare “la ricerca dell’immortalità: non voglio correre rischi, non voglio il pollo avariato della Cina, non voglio uscire di casa e essere derubato, non voglio ammalarmi, non voglio morire...talvolta ho la sensazione che si tratti di una patologia collettiva alla quale noi andiamo cambiamo i codici per leggere i problemi oppure ci sarà sempre un “però” dietro senza avere il coraggio di dire nulla, perché per farlo bisognerebbe certo mettersi in gioco: ragazzi noi non possiamo immaginare di arrivare alla “sicurezza totale”, a meno che non pensiamo ai modelli dei grandi agglomerati urbani per cui chi se lo può permettere recinta, mette le telecamere, ha la guardia privata e elimina l’imprevisto dalla propria vita”.

Per progettare politiche di sicurezza è necessario tenere presente che tutto questo ha a che fare molto da vicino con il modello di società che si vuole costruire.

Tornando al “però” di cui si diceva, all’obiezione del cittadino che, anche quando riconosce l’intervento realizzato, ha sempre nuove richieste da avanzare, è possibile forse trasformare quel momento di dubbio in uno spazio di confronto tra chi esprime la domanda di sicurezza e chi ha il compito di rispondere. Si può provare a spostare il centro della questione, passando da un confronto domande-risposte assolute ad un dialogo in cui le domande non sono semplificate e le risposte non appiattiscono il problema; un dialogo in cui la politica, attraverso un approccio negoziato, prova a restituire la complessità delle situazioni ai cittadini.

In un contesto in cui “molti semplificano, in primo luogo i giornali, in cui molti riducono i problemi a stereotipi, in cui molti pensano che la soluzione semplice esista, e che magari sia quella muscolare, è importante aprire il dialogo con i cittadini, singoli o in forme organizzate, perché nel dialogo si apre anche un margine che sta alla negoziazione, in cui quel “però” è un “però” ma anche un “contro però” con cui può rispondere l’amministrazione”.

Quel “però” può aprire lo spazio della partecipazione, uno spazio reale di confronto che, senza cadere nella semplificazione dell’appello allo sviluppo di comunità e della costruzione di relazioni, consenta al cittadino di accrescere la propria esperienza di cittadinanza per interpretare i problemi in maniera più adeguata. Prendiamo ad esempio “il problema dello spaccio di cocaina. Qual’é la soluzione? Qual è il modello da adottare? Quale approccio? Cosa si può fare quando centinaia di migliaia di persone in questa regione vogliono comprare cocaina? Se questo tema viene discusso tra cittadino e amministrazione in un contesto di dialogo, ad emozioni un po’ placate, forse, è possibile che si possa affrontare costruttivamente”. E quel cittadino, potrà forse sentirsi parte di una politica di sicurezza poiché se i cittadini comprendono la complessità partecipa ad una riflessione comune su come affrontare il problema. Nello stesso tempo la domanda di sicurezza non può più essere urlata, perché il problema alla base non appare più così slineare, ma al contrario “appare come un rebus difficile da risolvere, e l’amministratore pubblico appare meno come quello che non fa niente, ma piuttosto come uno che ha di fronte un problema molto difficile da risolvere e che, probabilmente, non potrà essere risolto completamente, e sicuramente non sta tutto nelle competenze, nelle podestà di un assessore o di un sindaco”.

Se invece non si riesce a liberarsi dalle pressioni simbolico - mediatiche e si rimane nella logica del “però”, diventa impossibile affrontare le questioni nella loro complessità, e allora l’unica risposta che l’amministrazione può dare, all’interno di questo schema, a chi protesta e a chi scrive sui giornali, è: ho inserito il reato, ho inserito la pena. E se anche si stanno sperimentando altri tipi di intervento, magari azioni immateriali, diventa difficile farle rientrare all’interno del dibattito, perché “…se tu dici: io ho Murarte, il cittadino ti dice: ma questo cosa c’entra? (E l’altro è il cittadino del “però”). E quindi sei costretto a rispondere simbolicamente sul piano della norma, della riproposizione simbolica della norma, magari  contraddicendo te stesso mentre stai lavorando su quel problema con l’approccio negoziale, che però non è spendibile simbolicamente se non dentro un processo di relazione con i cittadini, che è molto più complesso”.

Spostare il confine che, nell’osservare i problemi, consente di non semplificarli, è possibile se si mantiene la consapevolezza del contesto urbano, di ciò che è e che sarà, o potrebbe essere.

“I paesi, poi in particolare, sono luoghi di affrancamento dal vicino con cui si litigava per a qualunque cosa, perché il mulo di tuo nonno aveva pestato un piede a… e non si scappava dal controllo, quello sì conservatore, dei pensieri, dei comportamenti, eccetera”.

I paesi sono il posto dove invece si può conquistare la libertà di scegliere, di scegliere le relazioni, di adottare dei comportamenti diversificati. Lo scotto che si paga è che in paese si trovano anche le situazioni di confusione connaturate a questa condizione di libertà. Si tratta allora di trovare il modo di convivere con queste condizioni, di confrontare la libertà di scegliere e la confusione.

Le politiche dovrebbero riuscire allora, come si diceva, a cambiare i codici, a fare uno scarto, non per eludere i problemi che già esistono, ma per modificare il modo in cui i problemi che già esistono vengono percepiti. Provare a lasciare da parte una percezione centrata sulla fatica, sul disagio, sul senso di sconfitta, di impotenza, rilanciando su temi che aprono al futuro.

Rilanciare su prospettive positive può consentire di mettere in secondo piano una visione più critica ed emergenziale.

Inoltre nelle politiche urbane, a livello locale, lavorare su questi temi può permettere di raggiungere risultati di una qualche efficacia rispetto alle ricadute sulla percezione di sicurezza.

Questo non significa che i problemi siano stati risolti. Spostare il punto di vista però, e modificare i codici, consente non solo di affrontare i problemi con un range di risposte più ampio, che include ad esempio gli interventi immateriali, ma anche di poter tenere e far accettare queste risposte all’interno del dialogo con i cittadini.

In conclusione la discussione del tavolo dovrà interrogarsi sulla comprensione dei problemi sottesi ai campi di politiche prese in considerazione.

Qual è il problema al centro delle politiche per la  sicurezza?

Si è detto in precedenza che il tema sicurezza si concentra oggi nell’ambito dell’Altro e del Fuori. In periodi diversi sono stati altri i temi cardine. Facendo un salto temporale, nella seconda metà dell’800, il problema sicurezza era prevalentemente legato al tema igienico sanitario: si moriva per mancanza di condizioni igienico sanitarie minimali. L’intervento che si mise in atto quindi, fu un intervento di tipo igienico sanitario, e i piani vennero progettati da igienisti, da ingegneri o da responsabili delle opere pubbliche. Allora, se è vero che, da una parte, le politiche hanno una responsabilità nel disegnare rappresentazioni e nell’indicare qual è il problema, e che, dall’altra parte, il tema oggi è l’Altro e il Fuori, “… sposterei il baricentro della sicurezza sulle questioni sociali. L’Altro e il Fuori sono un tema di conoscenza e di spostamento del confine, non di quello fisico, ma di quello che abbiamo dentro. Proverei a mettere in campo dispositivi che lavorino prevalentemente sul tema della ricostruzione di conoscenze e di presenze che spostino il confine che la società o la comunità locale si è costruita. Che l’altro non sia più un Altro e che il Fuori sia un pezzo del Dentro”. Esiste un tipo di rappresentazione, che è quella securitaria, a partire dalla quale vengono messe in campo politiche relative alla sfera della legalità. Esiste poi una seconda rappresentazione, che si può forse definire culturale, e a partire da quest’ultima si possono mettere in campo altri strumenti, programmazioni di tipo diverso, anche a livello regionale. Partendo dal tema sicurezza intesa come rappresentazione di un problema sociale si possono disegnare strumenti altri da affiancare a quelli più frequentemente utilizzati dalle politiche per la sicurezza.

La nostra società presenta un processo di forte invecchiamento, siamo uno dei paesi con la più elevata aspettativa di vita. Siamo inoltre uno dei paesi che ha la più bassa natalità e abbiamo infine una forte frammentazione; i censimenti dicono che le famiglie sono sempre più di piccole dimensioni, sempre più mononucleari. Quindi la prospettiva è quella di diventare una società di persone anziane e isolate. È chiaro che questa situazione porta ad una “esasperazione del tema della sicurezza. Isolamento, chiusura, resistenza, portano a soglie di tolleranza molto basse, per cui basta il minimo evento e la comunità scatta”. Lavorare su questi aspetti è un’operazione di ridisegno del confine sociale. Si lavora sul “chi è l’altro e cos’è il fuori”. Se si immagina quindi di definire queste due rappresentazioni, esse stanno ai due estremi opposti, da un lato legalità, dall’altro lo spostamento del confine culturale, conoscitivo e sociale. Cosa sta tra i due estremi? In mezzo possono stare le politiche di riqualificazione urbana e le politiche abitative. “Io proverei ad utilizzare queste politiche come un supporto a questa fase di scombinamento e di, diciamo così, impaginazione; e cioè verificare se è possibile usare queste politiche molto materiali e fisiche per modificare gli assetti costruiti dentro determinati quartieri, per rompere gli equilibri, per modificare quel confine, che è anche fatto di regole pubbliche o costruite dalle società”. In molti contesti di quartieri di edilizia residenziale pubblica le regole non sono definite dal pubblico ma dalla comunità stessa. Una comunità consolidata da decenni di residenza in quegli alloggi che di conseguenza pretende di gestire, ad esempio decidendo a chi possono o non possono essere assegnati. La comunità si è costruita un equilibrio, una regola, e sono quella regola, quell’equilibrio, che fanno diventare l’altro un Altro, pericoloso, una minaccia, e il fuori il Fuori, non più un pezzo del dentro.

Bisogna quindi chiedersi “come sia possibile, attraverso lo spazio, modificare questo confine, che è un confine molto immateriale, un confine percepito”.

Spostare il confine e provare anche a spostare il centro, ad esempio, negli interventi di riqualificazione delle periferie. Spostare il centro significa non focalizzare l’attenzione solo sul quartiere problematico, studiando interventi ad hoc e concentrandosi sempre e solo sullo stesso territorio, anche perché questo significa continuare a confermarne la problematicità senza mai uscire da una sorta di spirale, e arrivando a un certo punto quasi a un accanimento terapeutico. Mentre magari il problema esiste, ma non solo in quel luogo, e quindi una politica che interviene su quel problema può provare a localizzarsi diversamente. Mentre invece concentrarsi sulla stessa area rischia di radicare ulteriormente il baricentro. “… è vero che la piazza lì è peggio di quell’altra però lavoriamo su quell’altra, cerchiamo di portare gente di questo quartiere fuori e gente di fuori dentro a questo quartiere. Allora è meno una politica incentrata sul “sistemiamo il vostro problema locale”, ma una politica che si localizza perché sta lì provando a ridefinire un quadro differente, che è molto meno locale, è molto più urbano, molto più contaminato, molto più, se vogliamo, inclusivo e permeabile”.

Relativizzando diventa possibile provare ogni tanto a spostare i baricentri, così come diventa possibile provare a fare questi “esperimenti” in cui Murarte diventa una politica sulla sicurezza, anche se il collegamento sta solo nelle teste di chi vuol provare a sperimentare questo “sconfinamento”. Perché il problema delle politiche di sicurezza è quale confine disegnano: se il confine è stretto, se il confine è sempre lo stesso, il rischio è che la rappresentazione diventi molto negativa e che confermi un’identità esclusivamente di degrado. Questo significa comprendere che l’Altro non è uno solo ma sono molti, e non tutti minacciosi. E se si è consapevoli di questo forse anche l’Altro minaccioso lo appare un po’ meno. E che il nostro Fuori non è l’unico Fuori, ce ne sono molti altri, un po’ migliori, un po’ peggiori.

Relativizzare significa comprendere che la nostra visione è frutto di un quadro culturale, e come tale a volte va interpretata osservando dalla giusta distanza, capendo che cosa si può affrontare e che cosa no, e qual è il modo più appropriato di farlo.

 

 

PARTE III

3.1 LA CITTA’ VISTA DAI BAMBINI.

 

“Bisogna sempre spiegargliele le cose ai grandi.

I grandi non capiscono mai niente da soli e i bambini si stancano a spiegargli tutto ogni volta.” da Il piccolo principe.

 

Nell’ambito del progetto sul tema della sicurezza urbana devono essere coinvolti soggetti diversi da quelli tradizionalmente chiamati ad intervenire e fare proposte su città, vivibilità e sicurezza: i bambini, i loro insegnanti, le famiglie.

A partire da questa esperienza si propone ora una riflessione che, sui legami tra ambiente costruito e sicurezza, prova ad adottare un punto di vista specifico, quello dei bambini, soggetti che sull’uso delle città e sulla qualità della vita hanno molto da dire e da proporre.

Fin qui abbiamo analizzato lo spazio pubblico, e i suoi legami col tema sicurezza nelle città, visto dagli adulti: amministratori, abitanti, studiosi, politici, operatori, architetti..

Ma la sicurezza urbana non riguarda solo le istituzioni e i tecnici, ma coinvolge bisogni, responsabilità, abitudini e comportamenti, spesso differenti, di tutti i soggetti presenti sulla scena. Proviamo allora ad analizzare quali scenari e quali proposte emergono quando si ascoltano e si coinvolgono quei soggetti che, ad un primo sguardo, poco hanno a che fare con questo tema: i bambini.

“Dare la parola ai bambini non significa fare loro domande e far rispondere chi alza la mano per primo. Dare la parola ai bambini significa invece metterli in condizione di esprimersi. Per esprimersi i bambini debbono poter ragionare su cose che conoscono direttamente, che fanno parte della loro vita. Non possono dare il loro punto di vista sulla storia lontana o sui paesi e sui problemi che non conoscono, ma possono farlo sulla vita del quartiere, del paese dove vivono, sui loro bisogni, sui loro desideri. È importante coinvolgerli su problemi su cui tutti abbiano qualcosa da dire, e non solo i più bravi a scuola”.

Spesso ci si occupa dei bambini in chiave preventiva, prendendoli in considerazione come gruppo a futuro rischio di devianza, ma quasi mai viene chiesto loro cosa ne pensino del rispetto delle regole da parte degli adulti oppure se amino il proprio paese e se vi si sentano liberi di esprimersi. Quasi mai vengono ascoltate le loro proposte o sostenuti i loro

bisogni nelle scelte che noi adulti compiamo. Far parlare i bambini non significa chiedere loro di risolvere i problemi del paese, creati dagli adulti, ma significa tener conto delle loro idee e delle loro proposte. Occorre essere convinti che i bambini abbiano qualcosa da dirci, e che questo qualcosa sia diverso da quello che noi adulti sappiamo già. Per farlo bisogna aiutare i bambini a liberarsi dagli stereotipi, dalle risposte ovvie e banali che ne coprono i desideri, e la creatività.

Se la sicurezza urbana, o di un territorio, è costituita da quell’insieme di condizioni sociali, ambientali, economiche, abitative e di rispetto della legalità che permettono a tutti di vivere serenamente senza sentirsi minacciati da qualcosa o da qualcuno, loro, i bambini, su questo hanno molte cose da dire e da chiedere.

“I bambini, fin da piccoli, sono capaci di interpretare ed esprimere i propri bisogni e di contribuire al cambiamento delle loro città. I loro bisogni coincidono con quelli di gran parte dei cittadini, specie quelli più deboli. Vale quindi la pena dare loro la parola, chiamarli a partecipare, perché forse in loro nome e per il loro benessere è possibile chiedere ai cittadini adulti quei cambiamenti che difficilmente sono disposti ad accettare e a promuovere per altre motivazioni.”

Decidere di assumere i bambini come alleati del cambiamento significa dar loro la parola e promuovere iniziative che, senza scimmiottare il mondo adulto, diano al loro punto di vista dignità progettuale e alle loro idee spazio per osare.

Generalizzando, due sembrano essere le motivazioni che spingono ad investire in progetti, e in politiche, che “abbiano al centro” i bambini nell’analisi e nella progettazione sullo spazio pubblico e la qualità della vita: da una parte obiettivi di tipo preventivo, che, in risposta al disinteresse dei cittadini rispetto alla propria città, alla preoccupazione per gli episodi di non-cura e di vandalismo verso l’ambiente, coinvolga, fin da piccoli, i cittadini, rendendoli protagonisti dello spazio, e delle relazioni che in esso prendono forma, promuovendo quel senso di responsabilità individuale che può contribuire allo “star bene” di tutti.

Dall’altra l’idea che i bambini e le bambine siano soggetti forti e attivi, portatori di pensieri e punti vista, competenti e consapevoli: dar spazio ai loro bisogni e alle loro idee significa dunque operare per costruire condizioni e proposte che vadano a incidere sulla qualità della vita e sull’uso dello spazio, promuovendo cambiamenti per tutti. Dice Marina Lallo, psicopedagogista, che “i cittadini più piccoli si dimostrano cittadini attenti e consapevoli, capaci di parlare con competenza di quella che noi grandi chiamiamo “qualità della vita”. Loro non sanno che si chiama così ma sanno perfettamente cos’è.”

E’ ormai assodato che un mondo “ a misura di bambino” sia la cartina tornasole della qualità della vita; ciò dovrebbe indurre le amministrazioni locali a farsi carico di iniziative e progetti che garantiscano il benessere dei bambini, sapendo che città così pensate sarebbero città più vivibili per tutti. E avendo ben presente che il benessere dei bambini dipende sia dalle risorse ambientali a loro disposizione - spazi sicuri, liberi, accessibili - che da quelle di tipo relazionale – persone, famiglia, scuola, vicini di casa, altri bambini, su cui poter fare affidamento.

Affrontare il tema della sicurezza degli spazi del quotidiano, e dunque della loro fruibilità, comporta, oggi, affrontare temi di grande complessità sociale e di cambiamenti che sempre a maggiore velocità ci coinvolgono. Lo sviluppo dei nostri paesi ha condotto i bambini fuori dallo spazio pubblico: le strade e le piazze sono diventate aree di transito, perdendo quelle caratteristiche di spazio pieno di persone, di possibilità, di cose da scoprire che ne faceva esperienza fondante di gioco e di incontro. A questo si aggiungono le modificazioni rispetto all’uso dello spazio indotte dall’allarme sulle condizioni di sicurezza delle nostre città. La preoccupazione per i rischi che potrebbero incontrare, lo sviluppo urbanistico dei territori, sempre più sedi di pericoli, hanno pian piano determinato l’allontanamento dei bambini dallo spazio “naturale”, piazze, cortili, strade, mentre via via si sono pensati e progettati spazi dedicati a loro, specializzati, controllati, nei quali spesso la libertà di azione, di movimento, di creatività dei bambini è fortemente compromessa. Inoltre il sistema dei divieti e dei regolamenti impedisce ai bambini di giocare e incontrarsi negli spazi di uso comune, come i pianerottoli, le scale, i cortili, per tutelare la tranquillità, e i posti auto, degli adulti. Queste proibizioni sono sancite dai regolamenti di polizia municipale e di condominio, o almeno lo sono state fino a quando il Parlamento italiano non ha ratificato, con la legge 176 del 27 maggio 1991, la Convenzione internazionale dei diritti dell’Infanzia. In particolare nell’articolo 31 della Convenzione si sancisce il diritto dei bambini al gioco e il dovere delle Amministrazione di sostenere e difendere tale diritto. Comuni e assemblee condominiali dovrebbero fare in modo che i propri regolamenti non violino tale diritto. In un contesto urbano dove si moltiplicano i pericoli ambientali, e dove quindi l’autonomia e il gioco libero dei bambini diventano esperienza sempre più rara, la valorizzazione dell’uso dei cortili condominiali potrebbe costituire un’azione efficace per promuovere il gioco dei bambini, in un contesto di protezione (da parte degli adulti), di incontro, ma anche di libertà. Questo significa in primo luogo mettere a norma i regolamenti di polizia municipale, laddove vietano il gioco negli spazi pubblici o nei cortili.

Nei cortili e comunque nelle aree scoperte delle abitazioni private, il regolamento di condominio può disporre limitazioni al diritto di cui sopra, all’interno delle fasce orarie 8.00-10.00; 13.00-15.00; 22.00- la presenza dei bambini, dotandoli di strutture per la sosta delle persone e per l’uso comune. Così nelle città, fuori dagli spazi protetti, e specializzati, i bambini non ci sono più, o al massimo vi transitano, accompagnati da un adulto. Questo dato incide sulle condizioni di vivibilità del territorio, perché uno spazio senza bambini è meno vissuto, e uno spazio solo per bambini non attrae categorie sociali diverse che potrebbero informalmente garantirne il controllo. Ma incide anche sulla possibilità dei bambini di vivere dimensioni quali quelle del gioco, della scoperta, dell’autonomia che sono fondamentali per la sua crescita.

Affrontare il tema dei cambiamenti nell’uso dei territori da parte delle bambine e dei bambini implica anche provare a costruire politiche di sicurezza che, partendo da esperienze e punti di vista diversi, incrocino politiche educative e politiche sullo spazio pubblico. Questo perché occorre chiedersi quale costo abbiano, in termini di crescita e di acquisizione di abilità sociali, i pericoli delle nostre città e la vita protetta e controllata che ne consegue. Per imparare a vivere con gli altri, a gestire i litigi, a interiorizzare le norme che regolano la vita sociale si deve poter fare esperienza, e, per un bambino, questo significa soprattutto poter giocare con altri bambini, liberamente. I bambini attualmente vivono tutte le loro esperienze affidati ad adulti che li controllano, li guidano, li istruiscono. Bambini che iperstimolati da tutti i punti di vista rischiano di essere deprivati della fondamentale esperienza dell’imprevedibilità, attraverso cui costruire percezioni ed esperienze che vadano a costituire un bagaglio di competenze per muoversi nel mondo. Rischiano così di perdere ogni possibilità di gioco collettivo e spontaneo, e spesso sono condannati a lunghi periodi di solitudine.

Possiamo quindi sostenere che una così forte riduzione di autonomia nei bambini provochi gravi danni al loro sviluppo, da un punto di vista cognitivo, fisico e sociale. L’autonomia dei bambini, la capacità di stare nel mondo con sufficienti strumenti per potersi muovere con fluidità, è principalmente un grosso nodo educativo, ma non può essere affrontato senza incrociare politiche che si occupino di spazio pubblico e sicurezza urbana. Sempre più si rende evidente il nesso tra urbanistica, organizzazione della città, qualità della vita dei suoi abitanti e opportunità di crescita di bambini e ragazzi.

E sempre più occorre pensare a lavori che, mettendo insieme voci professionali diverse, provino ad innescare meccanismi di fiducia, per favorire in modo realistico comportamenti nuovi che, attorno al tema del gioco, della mobilità, dell’autonomia, della sicurezza, rafforzino l’alleanza tra famiglie, insegnanti, progettisti e bambini. Poter giocare, muoversi, crescere nell’esperienza deve diventare istanza dei bambini accolta dai grandi, che provino a integrarla nella loro mentalità, nelle loro paure, nelle loro abitudini.

Per questo è prioritario che, insieme ai piccoli e per la loro sicurezza, si lavori molto con i grandi: amministratori e progettisti, genitori e educatori. Perché la sicurezza dei bambini è un dovere degli adulti, responsabilità educativa in primo luogo e quindi politica. Il coinvolgimento dei bambini in un dialogo sulle relazioni, sull’organizzazione e la gestione degli spazi e dei tempi non possono essere posti in alternativa all’azione e al clima educativo e responsabile che famiglie, scuole, istituzioni debbono assumere come dovere proprio per rispondere ai bisogni dei bambini e creare contesti in cui si sentano liberi e tutelati. Occorre prendere in considerazione soprattutto le paure dei grandi per avviare percorsi di responsabilizzazione e costruzione della fiducia, ove, a fronte dei pericoli e delle trasformazioni dello spazio urbano, famiglie ed educatori abbiano la possibilità di confrontarsi ed elaborare strategie che offrano ai bambini la possibilità di godere di quei diritti, al gioco, alla mobilità, alla libera espressione, fondamentali per il loro sviluppo. Le città provano ad attrezzarsi, e a portare avanti percorsi per ridare spazio ai bambini: la progettazione partecipata di giardini e aree gioco, ma anche l’adozione dei monumenti, o i progetti di mobilità in autonomia. Progetti grossi che partono dalle amministrazioni, ma anche progetti più piccoli svolti nella singola classe.

Percorsi di esplorazione dei territori che attraverso la conoscenza di uno spazio provano a ricostruire legami, e attraverso i legami provano a ritrasformare quello spazio in luogo, da esplorare e con cui interagire.

Proviamo ad analizzare ora alcuni modelli di intervento (senza voler essere esaustivi, sono tante le esigenze interessanti), che investendo sul rapporto tra bambini, città e sicurezza, operano, da vertici di osservazione diversi, per proporre forme di azione e di progettazione che tengano in primo piano il diritto dei bambini al gioco, alla mobilità, alla sicurezza.

N.B.: i testi, che descrivono i progetti nelle schede che seguono, sono tratti dai relativi siti o da altro materiale informativo. I riferimenti sono contenuti all’interno delle schede stesse.

Il progetto “La città dei bambini” nasce a Fano nel maggio 1991. Rifiutando un’interpretazione di tipo educativo o semplicemente di supporto ai bambini, il progetto si è dato fin dall’inizio una motivazione politica: operare per una nuova filosofia di governo della città assumendo i bambini come parametri e come garanti delle necessità di tutti i cittadini. Non quindi un maggior impegno per aumentare le risorse e i servizi a favore dell’infanzia, ma per una città diversa e migliore per tutti, in modo che anche i bambini possano vivere un’esperienza da cittadini, autonomi e partecipanti. La città la filosofia del progetto .

Gli ambiti all’interno dei quali “La città dei bambini” promuove azioni sono:

l’autonomia: fin dall’inizio il progetto ha assunto come uno dei suoi obiettivi principali quello di rendere possibile ai bambini di uscire di casa senza essere accompagnati, per poter incontrare gli amici e giocare con loro negli spazi pubblici della città: dal cortile al marciapiede, dalla piazza al giardino;

la partecipazione: uno strumento fondamentale per ricostruire un ambiente accogliente e disponibile nei confronti dei bambini è chiedere il loro contributo, chiamarli a collaborare per un cambiamento reale dell’ambiente urbano;

la sicurezza: la ragione principale che impedisce ai bambini di uscire di casa è la pericolosità della strada. Il traffico, l’inquinamento e la presenza di persone pericolose fanno pensare agli adulti che sia impossibile per un bambino scendere in strada da solo per giocare con gli amici. Le misure di difesa prevedono a livello individuale varie forme di “fortificazione”, mentre a livello sociale è sempre più forte la richiesta di difesa pubblica. Ma questi strumenti si sono sempre rivelati inefficaci e assolutamente lesivi dei diritti dei cittadini, specialmente di quelli più deboli che in una situazione di difesa estrema sono condannati alla reclusione in casa. L’alternativa è la partecipazione, l’”occupazione” sociale degli spazi pubblici;

la mobilità: i bambini sono pedoni puri, non hanno alternative e allora protestano, chiedono agli amministratori di permettere loro di uscire di casa, di attraversare le strade, di usare le piazze, senza che i genitori abbiano paura. Nelle esperienze realizzate si è visto che la presenza di bambini nelle strade, per andare a scuola o per cercare compagni di gioco, ricrea negli adulti condizioni sociali di responsabilità e di protezione e quindi condizioni di sicurezza per i bambini stessi;

il bambino nella testa dell’adulto: la grande enfasi che il progetto mette nel protagonismo infantile, e nel diritto a partecipare alle decisioni da parte dei bambini, non limita in alcun modo l’assunzione di responsabilità degli adulti. Il progetto, attraverso le proposte e le idee dei bambini, attraverso la realizzazione dei loro progetti, mira a costruire una cultura dell’infanzia negli adulti e specialmente negli amministratori in modo che sappiano prendere le loro decisioni avendo interiorizzato il pensiero e le esigenze dei bambini. Dal 1991 ad oggi sono molte le attività che sono state realizzate nelle diverse città italiane che hanno aderito al questo progetto, modificandosi e adattandosi alle diverserealtà locali: apertura dei laboratori “la città dei bambini”. I laboratori consistono in un gruppo di lavoro organizzato dall’Amministrazione, che elabora il progetto tenendo conto delle esigenze e delle risorse locali, che programma le attività, che ne cura lo sviluppo, che le valuta; creazione del Consiglio dei bambini, che nasce dalla convinzione del sindaco e degli amministratori che i bambini possano correttamente ed efficacemente contribuire ad un migliore governo della città. Si tratta di un gruppo di bambini che “dà consigli” agli adulti sui problemi della città che conoscono, che li riguardano, denunciando eventuali inadeguatezze o ingiustizie e formulando proposte; progettazione partecipata di spazi, percorsi, servizi: anche in questo caso un gruppo di bambini lavora con adulti per risolvere, con un ruolo protagonista, un problema reale. L’attività termina con la presentazione del progetto, anche se il percorso è davvero efficace solo quando è garantito il proseguimento fino alla realizzazione del progetto, a scuola ci andiamo da soli: come primo contributo per la restituzione di autonomia si chiede ai bambini dai sei agli undici anni di andare a scuola e di tornare a casa senza essere accompagnati da adulti. Per realizzarla occorre un lavoro lungo e rispettoso delle paure delle famiglie, con il contributo di varie categorie sociali per ricostruire condizioni ambientali e sociali favorevoli. Il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio, all’interno del coordinamento dei Comuni italiani per l’Agenda e per l’attuazione di Habitat II, ha promosso il progetto “Città sostenibili delle bambine e dei bambini”. A loro volta, le Associazioni locali e nazionali impegnate sul tema infanzia-territorio-partecipazione, hanno contribuito con iniziative, campagne, percorsi educativi e sperimentali alla realizzazione di un nuovo approccio all’infanzia e alla città.

A fronte del disagio e del sempre crescente inquinamento, problemi e soluzioni sembrano apparentemente molto simili per adulti e bambini. Non si tratta di intervenire su singoli problemi ambientali dei paesi ma di studiare soluzioni per una gestione ottimale dell’“ecosistema urbano” per prevenire il degrado e promuovere processi di trasformazione dell’ambiente urbano anche attraverso forme di partecipazione, espressione ed intervento dei bambini.

La qualità urbana riferita ai bambini è fatta di cose concrete e materiali: spazi e tempi per una libera circolazione e per il gioco, i servizi sanitari ed educativi, un ambiente sano, opportunità culturali e di espressione necessarie alla formazione ed alla partecipazione. Le città più amiche dell’infanzia si adoperano per: destinare una quota degli interventi generali programmati dalle città ad iniziative destinate alle bambine e ai bambini; ripensare i servizi per i bambini, che servono anche a loro; utilizzare al meglio tutti gli spazi destinati permanentemente all’educazione; organizzare aree di gioco più sicure, più colorate e aperte alla progettazione partecipata; istituire consigli dei ragazzi o forme analoghe di consultazione e di discussione; prevedere piani urbani del traffico e della mobilità prevedendo anche aree protette pedonali; promuovere attività di educazione ambientale nella direzione dello sviluppo sostenibile per aiutare processi di identificazione tra i bambini, il territorio e la città e per incentivare comportamenti di tutela; promuovere la riqualificazione e l’utilizzo nei quartieri di spazi da destinare alla socializzazione. La progettazione partecipata delle aree gioco: i cortili e i parchi.

Ogni anno circa una decina di scuole sono chiamate a diventare un luogo privilegiato di coinvolgimento e di partecipazione dei bambini e delle comunità di riferimento sui temi della trasformazione e cura del territorio. In tale prospettiva la scuola diviene il nodo centrale di un proprio ambito geografico e “adotta un territorio” inteso nella sua accezione più ampia, ovvero come la sequenza di spazi e luoghi che partono dall’edificio scolastico e dalle sue pertinenze per estendersi all’ambiente urbano di prima prossimità: la scuola rappresenta una parte della città in cui è inserita e con essa stabilisce relazioni urbanistiche e sociali.

Il percorso metodologico prevede un “contratto” iniziale con i ragazzi nel quale la città – a fronte di un impegno della durata di un intero anno scolastico - si impegna:

1) a mettere a disposizione risorse, strumenti e competenze tecniche affinché sia possibile un percorso di conoscenza e di progettazione

2) a realizzare i progetti di trasformazione elaborati dalle classi.

Un analogo patto è stipulato con i direttori e gli insegnanti delle scuole coinvolte affinché l’attività sia inserita a pieno titolo nella programmazione delle attività didattiche e gli esiti siano formalmente riconosciuti e accettati da tutta la scuola.

In particolare agli insegnanti è richiesta la partecipazione in prima persona all’intero percorso e ad essi sono affiancate figure professionali – gli architetti tutor – che supportano la dimensione tecnica della progettazione strutturale e urbanistica.

Gli architetti impegnati nell’attività con le classi provvedono a tradurre tecnicamente i progetti in modo da renderli immediatamente fruibili per le procedure normative necessarie alla realizzazione.

Per dare corso ad una risposta reale alle richieste elaborate, è stato costruito un percorso parallelo all’interno dei vari settori della pubblica amministrazione. Non è infatti possibile invitare i ragazzi alla partecipazione se non si è altrettanto preparati a far sì che tale impegno produca effettivi risultati: in caso contrario si sarebbe responsabili di un pessimo messaggio educativo e di un’ulteriore sfiducia nelle istituzioni pubbliche. A tale scopo sono stati promossi gruppi di lavoro trasversali tra Settori diversi dell’Amministrazione (Edilizia scolastica, Verde pubblico, mobilità urbana..) per monitorare insieme le varie fasi dell’attività: a tutti è stato richiesto di rendersi disponibili ad incontrare i ragazzi per fornire informazioni, spiegare aspetti tecnici, ascoltare suggerimenti e obiezioni.

Dal punto di vista amministrativo sono state fatte scelte di carattere economico grazie alle quali non è stato necessario prevedere nuove risorse, ma si è rivelato sufficiente riorientare - sulla base delle indicazioni operative dei ragazzi – impegni finanziari già programmati. In tal modo il percorso di realizzazione delle opere è stato reso molto più veloce e i ragazzi hanno avuto modo di assistere alla realizzazione delle opere o perlomeno all’apertura dei “cantieri” di lavoro.

Va sottolineato che ogni intervento in ambito urbano prevede la presentazione dei progetti da parte dei bambini nelle sedi istituzionali di competenza a cui fa seguito una discussione degli stessi aperta al pubblico.

Altri progetti del Laboratorio Città Sostenibile

Attualmente il Laboratorio ha ampliato il proprio raggio di azione promuovendo percorsi e sperimentazioni sul tema della mobilità urbana dei bambini (Pedibus) e sul tema del riuso energetico degli edifici scolastici allo scopo di costruire protocolli diagnostici e comportamentali.

Tali attività sono ovviamente possibili grazie al costante ampliamento della rete dei soggetti partners del Laboratorio e alla disponibilità di Enti e professionisti ad intraprendere con i bambini un percorso di integrazione delle competenze e di condivisione di obiettivi.

Il Pedibus o Piedibus è un progetto che nasce in Danimarca.

E’ attivo in Nord Europa e negli Stati Uniti e si sta diffondendo in moltissimi altri paesi.

Anche in Italia è stato sperimentato e si è particolarmente diffuso negli ultimi anni. Ci sono iniziative e progetti in molte città. La finalità del progetto si possono riassumere in: educare alla mobilità sostenibile promuovere l’autonomia dei bambini nei loro spostamenti quotidiani in sicurezza favorire la socializzazione tra i bambini, i genitori e gli insegnanti coinvolti coinvolgere direttamente i bambini nella fruizione e nella gestione consapevole del proprio territorio.

Alcuni progetti Pedibus sono curati ed organizzati dai Comuni o altre istituzioni pubbliche, come le ASL, altri ancora da singole associazioni o dalle scuole.

Il Pedibus funziona come un vero autobus, con un suo itinerario, degli orari e fermate precise e stabilite. È un autobus “con i piedi”, cioè è formato da un gruppo di studenti che vanno e tornano da scuola accompagnati a piedi da volontari (genitori, nonni, insegnanti, volontari delle Circoscrizioni,...) lungo percorsi prestabiliti e messi in sicurezza. Come quelli dei veri autobus, i percorsi Pedibus prevedono capolinea e fermate intermedie, opportunamente indicate da cartelli che riportano gli orari di arrivo e partenza. Gli studenti

si recano sul percorso, aspettano al capolinea o alle fermate i volontari e il gruppo, per proseguire insieme verso la scuola. Nello stesso modo funziona l’accompagnamento al termine delle lezioni. Per aumentare la sicurezza e la visibilità, i progetti Pedibus in genere prevedono accessori di riconoscimento, quali pettorine o mantelle per la pioggia (il Pedibus infatti viaggia sia col sole sia con la pioggia).

Un elemento complesso dei progetti Pedibus è rappresentato dalla loro sostenibilità nel tempo.

Il progetto proposto, dunque, deve promuovere e diffondere nel territorio una cultura della sicurezza come politica integrata, offrendo occasioni di riflessione e strumenti di azione agli enti locali e ai diversi attori che, a vario titolo e a vari livelli, hanno competenze e responsabilità di gestione del territorio e possono migliorarne le condizioni di sicurezza.

A partire da quest’esperienza tutto il materiale è stato arricchito e rielaborato per prendere forma in un prodotto destinato a tutte le scuole elementari della Capitanata e da far utilizzare autonomamente agli insegnanti.

Obiettivo di questo percorso progettuale è quello di lavorare sulla conoscenza e la familiarità con i luoghi e le persone che vi abitano, cercando di costruire relazioni e investendo sulla qualità degli spazi e delle relazioni sociali per provare a costruire il senso di “casa”, del “sentirsi a casa”. Questo approccio è stato scelto perché consente al singolo cittadino – bambino o adulto - la possibilità di incidere sulla realtà che lo circonda, e perché si vuole provare a puntare l’attenzione su come, partendo dall’esperienza di ciascuno, si può contribuire a costruire una comunità più sicura, in cui si possa vivere meglio.

Le indicazioni contenute propongono un percorso e delle attività che consentono di parlare, con leggerezza, del pesante tema della sicurezza urbana, attraversando la quotidianità dei bambini, le azioni, i rituali, i luoghi che frequentano e scoprire insieme quali paure, desideri, relazioni, vicinanze e lontananze percepiscono. L’idea è che, attraverso questo strumento si possano condurre i bambini alla scoperta dei propri spazi di vita, da quelli più familiari a quelli pubblici, per accrescere il senso di appartenenza e accogliere le loro domande, proposte, sollecitazioni.

3.2 PROGETTO SCUOLE. APPROCCIARSI ALLA SICUREZZA.

La mancanza della cultura della sicurezza denota spesso un arretramento culturale . E’ pertanto  sempre necessario proporre nuovi contesti educativi e informativi sulla sicurezza in generale, dando coscienza ai giovani, non soltanto dei propri diritti e doveri ma anche delle responsabilità verso se stessi, verso gli altri e verso l’ambiente circostante. Il progetto: “Abitare e sicurezza”, riconosce nella scuola il luogo privilegiato per promuovere valori e principi educativi, il punto di forza e di svolta da cui partire per favorire nei bambini e nei giovani una cultura della prevenzione dei rischi, che li accompagni poi lungo l’arco della vita. Ciò, anche alla luce delle attuali indicazioni normative in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, che rimarcano l’importanza di sensibilizzare i futuri lavoratori alla prevenzione negli ambienti di vita (a scuola, a casa, per la strada, sul territorio) e sul lavoro, per consentire l’acquisizione e lo sviluppo di stili di vita sani e sicuri. A tal fine, gli insegnanti, in qualità di educatori essenziali al fianco delle famiglie, sono chiamati ad avvalersi di una efficace e congrua metodologia di intervento, per trasferire le conoscenze e incentivare nei bambini/giovani comportamenti corretti. In questo senso, il progetto intende proporre e fornire materiali e strumenti informativi/formativi e ludico/didattici mirati, che, con differenti modalità di comunicazione, possono essere di ausilio al corpo docente, nel veicolare e promuovere tra gli alunni la diffusione della cultura della salute e sicurezza.

 

3.3 LE FASI E L’ATTIVITA’ DIDATTICA.

Il programma modulato e differenziato tra scuola dell’infanzia e scuola primaria e secondaria, verte essenzialmente su laboratori applicativi /attività ludiche-ricreative che costituiscono nel progetto il principale approccio metodologico di intervento. Ciò, nella consapevolezza che il gioco rappresenta la risorsa privilegiata di apprendimento e di relazioni, un momento di crescita e socializzazione, il modo peculiare del bambino-giovane di rapportarsi alla realtà. È dunque il gioco, nelle differenti espressioni comunicative adeguate ai criteri e ai principi della sicurezza, ad essere il filo conduttore di tutto il percorso educativo. A tal proposito, un proverbio cinese recita:

 “Se ascolto dimentico, se vedo ricordo, se faccio capisco, se gioco imparo”.

L’attività ludica-ricreativa ha un ruolo importantissimo nell’educazione del bambino e svolge una duplice funzione nel suo sviluppo evolutivo: da una parte gli consente di comprendere e di adattarsi alla realtà esterna; dall’altra, lo aiuta a conoscere, interpretare e controllare il proprio mondo interno fatto principalmente di desideri e istinti, creando in questo modo la giusta mediazione tra le due realtà. Attraverso il gioco, il bambino incomincia a comprendere il funzionamento degli oggetti, rivive la realtà di tutti i giorni e la trasforma secondo i suoi desideri. Le diverse modalità di gioco dipendono dallo sviluppo emotivo del bambino e tendono a modificarsi con la crescita. A livello cognitivo il gioco favorisce lo sviluppo della memoria, dell’attenzione e della concentrazione mentre a livello comportamentale, il gioco favorisce la capacità di relazionarsi e di confrontarsi. Infatti, nel gioco i bambini sviluppano le proprie potenzialità intellettive, affettive e relazionali, le cosiddette “life-skills”, ossia abilità che servono per vivere bene. In particolare, i bambini riescono ad usare la fantasia, a sviluppare tutti e cinque i sensi e le coordinate spazio-temporali, interagiscono inoltre con i loro compagni, imparano a prendere le prime decisioni e a risolvere le prime difficoltà, anche se sotto forma di gioco. In tal modo, il gioco diventa uno strumento per cui il bambino, sorprendendo se stesso, sviluppa la propria creatività.

Partendo da questo principio, il processo informativo- formativo messo in atto prevede una determinata articolazione didattica.  Innanzitutto, una parte introduttiva in cui attraverso lo strumento del “SICUROMETRO” si misura il livello di conoscenza sulle tematiche di salute e sicurezza, funzionando da parametro di valutazione dello specifico fabbisogno informativo. In particolare, tale momento comporta divertenti e spesso buffe chiacchierate con i bambini/ragazzi, da cui emergono sia situazioni pericolose sia comportamenti sicuri vissuti in prima persona o attraverso un loro amico o familiare. Lo scopo di tale attività è principalmente quello di far riflettere sull’importanza di adottare dei comportamenti sicuri e di evitare quelli non sicuri, sottolineandone la pericolosità e le possibili conseguenze.

 Tale attività preliminare prepara la I FASE – ASCOLTO/FAMILIARIZZAZIONE, in cui vengono presentate le tematiche di salute e sicurezza nonchè i materiali opportunamente scelti per il target di riferimento. Questa fase si sviluppa fondamentalmente attraverso l’utilizzo di supporti (slides) e tecniche didattiche attive, come la proiezione di filmati in stile cartoon-fiabe, che fanno riferimento per i più piccoli a personaggi familiari come Biancaneve, Cenerentola e Paperino e per i più grandi alla divertente e simpatica figura di Napo, meno nota Tale attività preliminare prepara la alla fantasia comune dei bambini e dei giovani ma propriamente funzionale alle tematiche di salute e sicurezza sul lavoro. Infatti, tale personaggio creato ad hoc da un gruppo di esperti europei in comunicazione sulla salute e sicurezza sul lavoro, è l'eroe dell'omonima serie di cartoni animati che rappresenta simbolicamente la figura del lavoratore, “che può cadere vittima di situazioni che sfuggono al suo controllo, ma è anche in grado di identificare pericoli

o rischi e sa dare ottimi consigli per migliorare la sicurezza e l'organizzazione del lavoro”.  Si passa poi alla II FASE – OSSERVAZIONE/APPLICAZIONE/IL FARE che consiste in una attuazione pratica/laboratorio applicativo che, con ausili multimediali (slides e videogiochi interattivi) ed il ricorso a personaggi di fantasia, direttamente interpretati dai componenti del gruppo di lavoro, è finalizzata a trasferire nei bambini/giovani i comportamenti sicuri da assumere e quelli pericolosi da evitare, riproponendo situazioni facilmente riconoscibili e riscontrabili nel contesto familiare ed educativo (come ad esempio, l’utilizzo corretto dello zainetto scolastico, l’uso corretto del VDT/computer con la conseguente posizione ergonomica da assumere, la gestione dell’emergenza, in particolare le procedure da seguire per chiamare i soccorsi). Dal punto di vista metodologico, il laboratorio applicativo consiste in una vera e propria “palestra” dove l’acquisizione e l’interiorizzazione di conoscenze, capacità e comportamenti da parte del bambino/giovane sono il frutto di un processo che trae origine dal fare e dalla sperimentazione pratica.

Successivamente si svolgono i giochi/laboratori ludici, III FASE– INTERIORIZZAZIONE ATTRAVERSO IL GIOCO, quale momento fondamentale in cui l’alunno, guidato, diviene protagonista e soggetto attivo dell’attività creativa/formativa. Attraverso il gioco “l’apprendimento diventa costruzione e scoperta del sapere”. Nello specifico, i laboratori ludici hanno lo scopo di favorire e consolidare l’apprendimento e ’interiorizzazione di moduli comportamentali corretti per la propria ed altrui sicurezza, per prevenire i più comuni rischi in casa e a scuola. I laboratori ludici sono stati realizzati avvalendosi di alcune tipologie di giochi più usuali tra i bambini/ giovani ed al tempo stesso funzionali al progetto, come per es. per le materne, il gioco dell’oca, il gioco del puzzle e il gioco carte/memory; per le elementari i giochi di enigmistica come il cruciverba ed il crucipuzzle e l’acrostio per le medie. Successivamente la  IV FASE – VERIFICACONSAPEVOLEZZA /

RESPONSABILIZZAZIONE di verifica della corretta acquisizione da parte dei bambini/giovani dei comportamenti sicuri da assumere nei vari contesti della vita quotidiana.

ESEMPIO DI ATTIVITA’ DIDATTICA. IL GIOCO DELL’OCA

Metodologia

Il gioco è stato realizzato prendendo come riferimento il gioco dell’Oca originale ed è stato

riorganizzato rispetto ai principi sanciti dalla sicurezza. Sono stati redatti 18 cartoncini in cui sono state riprodotte alcune situazioni di pericolo che possono verificarsi in casa. Tali

situazioni sono state pensate nell’ottica di favorire il loro riconoscimento da parte del bambino, considerata la delicata fascia di età a cui è rivolto il gioco. In molte di esse è stata

raffigurata la “mamma”, quale principale interfaccia del bambino, spesso protagonista in casa di spiacevoli inconvenienti e di situazioni di “pericolo”, nonché promotrice fondamentale dell’educazione del bambino stesso. I bambini vengono suddivisi in due gruppi, a turno ciascun componente del gruppo tirerà il dado e, in base al numero ottenuto, troverà un determinato cartoncino in cui sarà rappresentata una situazione di pericolo; a questo punto dovrà descrivere ai compagni la scena rappresentata, in modo tale che la spiegazione e la descrizione favoriscano la memorizzazione del pericolo espresso nel disegno e l’eventuale riconoscimento dello stesso.  Alla fine del gioco si propone ai bambini di colorare i disegni affinché possano interiorizzare maggiormente i concetti rappresentati.

ESEMPIO DI ATTIVITA’ DIDATTICA. IL GIOCO DEL PUZZLE. “RICOSTRUISCI ED EVITA IL PERICOLO”.

Metodologia

Lo scopo del gioco è quello di individuare i tasselli che fanno parte di una stessa immagine,

unirli e ricomporre la figura nella maniera corretta. Il gioco è strutturato in due step: nel primo, il bambino riconoscendo le parti di una stessa immagine entra nella dimensione del gioco; successivamente deve applicarsi a riconoscere la rappresentazione che ha davanti a sé e a contestualizzarla. Nel realizzare questo gioco sono stati presi in considerazione quei materiali che più si avvicinano al mondo ludico della scuola materna come la carta, i colori e lo stesso gioco che rappresenta un’attività con la quale i bambini di questa fascia di età si confrontano molto spesso. Per la scelta delle immagini, alla base delle quali c’è sempre la

 rappresentazione di un eventuale pericolo, sono state identificate come essenziali le seguenti caratteristiche:

  • immediatezza della comprensione da un punto di vista grafico: quindi immagini lineari e senza troppi particolari così da evitare fonti di distrazioni con il contenuto della scena;
  • scelta di situazioni comuni e quindi facilmente riconoscibili e riscontrabili nel proprio contesto di vita.

Una volta ricomposta l’immagine, si spronano i bambini a descriverla, si individua l’oggetto di pericolo sul quale focalizzare l’attenzione e insieme a loro se ne approfondisce il significato. Al termine, i bambini possono finalmente divertirsi a colorare l’intera figura fissando così i concetti appresi.

 

ESEMPIO DI ATTIVITA’DIDATTICA. IL GIOCO DELLE CARTE-MEMORY.

Metodologia

Il gioco è stato realizzato prendendo spunto dal gioco originale “Memory” rielaborato sulla base dei concetti di pericolo e sicurezza. L’attività prevede una fase iniziale nella quale i bambini vengono “guidati” nella comprensione del comportamento pericoloso o non pericoloso, mostrando loro solo alcune delle carte illustrate che successivamente verranno utilizzate nel gioco e nelle quali figurano situazioni di pericolo o di non pericolo in casa, a scuola ecc. Questa fase è utile per “indagare” il grado di comprensione che i bambini hanno dei concetti di pericolo e di sicurezza e per procedere alla fase vera e propria del gioco, nella quale vengono disposte tutte le carte su un tavolo, con l'immagine coperta. A turno i bambini gireranno due carte per volta, facendole vedere anche agli altri compagni di gioco, cercando di trovare due figure uguali tra loro. Chi trova la coppia di figure uguali, prende le carte e può giocare di nuovo. Chi sbaglia, ricopre le carte che ha girato e il turno passa al giocatore successivo. Chi trova la coppia di carte uguali vi affiancherà un bigliettino (a forma di coccinella): il bigliettino/coccinella sarà verde se il bambino avrà riconosciuto nella carta una situazione di non pericolo, rosso se vi avrà individuato una situazione di pericolo. Ogni coppia di carte con il relativo bigliettino verrà poi inserita in una scatola colorata verde o rossa in base al tipo di comportamento che il bambino ha identificato. Anche l’associazione del colore (verde e rosso) ai comportamenti sicuri e ai comportamenti non sicuri riveste un ruolo importante nella comprensione dei concetti stessi di pericolo e di sicurezza. Inserite le coppie di carte nelle scatole, si estraggono uno alla volta tutte le carte. Ogni bambino dovrà illustrare ai compagni il tipo di situazione che ha individuato (pericolosa o sicura), motivando il perché della sua scelta. Questo consente di avere un riscontro sul grado di apprendimento dei concetti ma permette anche a tutti gli altri bambini di imparare attraverso l’ascolto.

Inoltre, all’interno di ogni biglietto verrà scritto (oltre al nome di ogni bambino) un breve

messaggio che sintetizza il comportamento illustrato, come:

  •  “non ti sporgere dai balconi”;
  • “non dare spinte quando scendi dalle scale”;
  • “fai attenzione agli spigoli delle finestre”;
  • “siediti correttamente su sedie o sgabelli per

evitare di cadere e non salire se sono

instabili”;

  • “fai attenzione quando scendi dal letto se non

ci sono le sponde”;

  • “non toccare il forno caldo”.

Ciò permette ad ogni bambino di focalizzare meglio il concetto espresso e di ricordare, anche in futuro, i comportamenti sicuri da adottare a casa e a scuola per evitare i pericoli quotidiani.

ESEMPIO DI ATTIVITA’DIDATTICA PER LE SCUOLE MEDIE. “ L’ACROSTICO. SICUREZZA-SALUTE”

Uno dei giochi utilizzati per far ragionare i ragazzi sulle tematiche di salute e sicurezza è stato l’ACROSTICO in cui le lettere iniziali della parola SALUTE/SICUREZZA devono formare un nome o una frase di senso compiuto. I ragazzi sono stati divisi in gruppetti e ad ogni gruppo è stato consegnato un foglio contenente la parola scelta scritta in maniera verticale, come da esempio sottostante:

Stare attenti ad

Individuare un pericolo

Con

Uso del cervello

Rispettando le norme di

Educazione per ottenere

Zero infortuni

Zero rischi in

Ambienti di vita e di lavoro

Questo tipo di gioco, previsto al termine della giornata, ha l’obiettivo di far emergere ciò che i ragazzi hanno appreso sull’argomento, stimolando la loro creatività. La divisione in piccoli gruppi è stata appositamente scelta per superare il limite delle capacità personali a vantaggio del gioco di squadra, pur permettendo ad ogni componente di avere il proprio spazio. Se all’interno dei singoli gruppi si vanno a sviluppare capacità di autocontrollo, disponibilità e collaborazione, nei confronti degli altri gruppi si crea spirito di competizione ed una vera e propria sfida, che stimola i ragazzi nel dare il meglio di sé. Ogni gruppetto ha lavorato individualmente, impegnandosi e divertendosi allo stesso tempo. Ogni squadra è riuscita a dare un senso tutto proprio al gioco: c’è chi ha utilizzato ogni lettera come iniziale di una semplice parola riguardante la “sicurezza”, chi, invece, ne è riuscito a dare un senso più completo creando una frase di senso compiuto. In entrambe le situazioni, è stato raggiunto il nostro obiettivo: ogni ragazzo si è trovato a dover riflettere sui concetti appresi e li ha poi rielaborati, confrontandosi con i propri compagni, in base alle proprie realtà, esperienze e capacità.